martedì 29 settembre 2009

LA FORESTA VAMPIRA

Platani e querce secolari torreggiavano sopra la minuta figura di Mishan, cacciatore delle marche di ponente, ricordandogli le antiche leggende. La foresta era sempre stata lì, prima che l’uomo mettesse piede sul continente, prima che le navi lasciassero le sponde dell’Impero Caduto, e molto prima che le antiche guerre scoppiassero e gli uomini dimenticassero di essere stati tutti fratelli.
Se il tempo era nemico di ogni cosa viva, animali, piante e uomini, la foresta, che il suo popolo aveva sempre chiamato Uaki, il Grande Respiro, non sembrava venire scalfita dal deteriorante rintocco dei secoli. Eppure c’era qualcosa di strano in quel verde così rigoglioso e in quell’abbondanza di foglie, fiori e frutti. Mishan non aveva mai visitato i lidi di Uaki prima di allora, ma subito capì che l’ultima guerra, quella devastante venuta dal nord, era riuscita a trasformare anche quel luogo. Infatti, anche se le piante sembravano esplodere di vitalità, come fossero soggette ad una perenne primavera, nell’aria alitava un odore malsano. A Mishan fece pensare al fetore della decomposizione, il tipico tanfo dei sepolcri e dei luoghi dei morti. Quelle due così distanti sensazioni, vista e olfatto, percepite insieme, mettevano i brividi.
Mishan ricordò perché era giunto fino alla foresta. La mente andava distratta quando le paure più inspiegabili affioravano in superficie. Per due interi mesi aveva viaggiato attraverso le montagne del remoto occidente, terre di lupi e di orsi. Era il rituale ultimo che il suo popolo chiedeva a coloro i quali desideravano diventare Grandi Cacciatori. Mishan aveva affinato le sue tecniche di caccia e di sopravvivenza ed era finalmente pronto a ricevere l’investitura.
Ma la guerra era arrivata d’improvviso, una moltitudine di guerrieri corazzati e assetati di sangue proveniente dal grande nord. Nessuno si era capacitato del perché quei popoli solitamente pacifici, si erano uniti e avevano mosso guerra alle terre del sud. Qualcuno aveva già intessuto una leggenda al riguardo. Sembrava che una creatura millenaria, imprigionata nei remoti ghiacciai settentrionali, a causa delle alte temperature della passate estate, era stata liberata. In pochi giorni, richiamando un potere oscuro, la creatura aveva soggiogato le menti dei biondi e valorosi uomini del nord, per guidarli in una folle campagna di morte. Per questo motivo era stata chiamata la Guerra della Follia.
Tutto questo Mishan lo aveva saputo al suo ritorno, interrogando i pochi sopravvissuti che aveva incontrato lungo la strada. Il suo popolo era stato costretto ad abbandonare le sue terre e a salpare verso l’arcipelago di Matiki, nei mari del sud. Sconvolto da quelle notizie, Mishan aveva deciso di partire per le marche d’oriente, dove si diceva che la guerra avesse sterminato intere popolazioni.
Giunto ai confini della foresta, si era augurato di incontrare gli elfi, il popolo magico che da sempre abitava quei lidi. Non poteva credere che anche loro fossero stati spazzati via dalla furia dei popoli del nord. Ma inoltrandosi dentro Uaki, avvertì una spaventosa solitudine. Non solo non vi erano tracce degli elfi, ma anche gli animali della foresta parevano scomparsi. E proprio l’inusuale silenzio, rotto solo dal muoversi delle frasche al vento, era la terza strana sensazione che non poteva ignorare. Tutto ciò lo rendeva molto inquieto.
“Ma che fine avranno fatto i folli guerrieri del nord?” si chiese per l’ennesima volta. Nessuno lo sapeva. Sembrava che l’entità che si era liberata dal ghiaccio perenne, non avesse uno scopo di conquista. L’unico suo interesse era quello di distruggere. Mishan si era imbattuto in almeno due grandi campi di battaglia, disseminati da corpi putrefatti e armi incrostate di sangue, e non aveva visto neanche un vessillo. Era come se le armate del nord non fossero state mosse da alcun desiderio di occupazione.
Il sole si stava abbassando. Era una di quei tiepidi pomeriggi di fine estate, e le giornate di stavano rapidamente accorciando. Malgrado tutti i pensieri che gli vorticavano nella testa, Mishan non poté fare a meno di storcere il naso per via di quell’odore. E più s’inoltrava all’interno della foresta, più diventava insopportabile.
L’iniziazione lo aveva formato definitivamente. Un uomo né alto né robusto, ma in completo controllo di ogni centimetro del suo corpo. Vestiva le pelli dei lupi e degli orsi, ma erano solo ornamenti per i suoi muscoli, che affioravano nudi e lucidi in tutta la loro avvenenza. Portava un arco lungo legato dietro la schiena e un’accetta da battaglia, piccola e fatale, arma rituale del suo popolo. Gli occhi erano allenati a captare i movimenti più sottili e a prevedere gli inganni dei paesaggi uniformi. Sulla neve tutto può succedere…
Mishan si arrestò nel mezzo al sentiero. Nessun rumore, nessun movimento, solo una strana, stranissima sensazione. Qualcuno o qualcosa lo stava osservando. Aguzzò la vista, cercando tra i riverberi della rugiadosa vegetazione. Le piante non avevano occhi, ma potevano nascondere il tuo peggior nemico…
Non era uno solo. Sentiva che erano tanti, che erano troppi. Rimase immobile ascoltando il suo respiro, controllando la paura. Le nocche gli si sbiancarono mentre stringeva il manico dell’accetta. Ma non poteva sperare di farcela da solo. Aveva bisogno di pensare, di capire, di vedere…
Una creatura bianca e glabra dalla forma vagamente umana fuoriuscì dalla foresta e lentamente, con un movimento eretto ma in qualche modo strisciante, si avvicinò a lui. Mishan intuì che ve n’erano decine di simili creature dietro gli alberi dai quali era comparsa quella. Restò fermo ma il braccio era pronto a scattare.
L’essere aveva la corporatura di un bambino con gli arti leggermente più lunghi e sottili, mani anch’esse lunghe e affusolate, ed era completamente nudo, ma privo di un riferimento sessuale. Il volto era senza bocca e aveva due orifizi per naso. Gli occhi si distinguevano appena in quella maschera lattiginosa, mentre gli orecchi erano piccoli e a punta, proprio come si diceva fossero quelli degli elfi.
Silenziosa e cauta, la figura opalescente si mise ad osservare il cacciatore, girandogli intorno, avvicinando la faccia alle sue membra come se volesse annusarlo. Il rituale andò avanti per qualche minuto, mentre Mishan rimaneva immobile come un cobra davanti alla preda.
Poi l’essere indietreggiò, sempre col suo fare strisciante, tornò da dove era venuto ma non dette mai le spalle al cacciatore. Continuò a fissarlo camminando all’indietro come un gambero, per poi dileguarsi tra la vegetazione. Mishan lasciò passare qualche minuto e poi il suo sesto senso lo avvertì che le creature se n’erano andate, e non vi era più pericolo. Così riprese il cammino.
Il bizzarro incontro lo convinse che non sarebbe stata una buona idea rimanere nella foresta per la notte. Ma ormai le ombre della sera si stavano preparando a fare il loro ingresso sul mondo, e neanche correndo indietro con tutte le sue forze sarebbe mai riuscito ad uscire prima del tramonto. Ricordava però di un fiume, segnato sulle vecchie mappe del capo villaggio. Quando era bambino adorava perdersi tra le righe sottili di quei quadri ingialliti, che indicavano terre misteriose e lontane. Asekor era chiamato nella sua lingua, il grande fiume meridionale, che nascendo dai ghiacci perenni viaggiava per centinaia di miglia verso sud, tagliando in due la foresta, e riversandosi infine nel grande mare. Se fosse riuscito a raggiungere le sue sponde, avrebbe avuto una via di fuga, nel caso le creature fossero ricomparse. Mishan era un abile nuotatore, e aveva la sensazione che quegl’esseri bianchicci non amassero l’acqua.
Allungò il passo, mentre la luce da bianca diventava gialla e poi arancione. Il fetore continuava a tormentarlo, ma ad un certo punto diventò più sopportabile, gli alberi persero quel rigoglio così innaturale e con suo grande sollievo udì il cinguettare di alcuni uccelli. La foresta sembrava nuovamente viva, ma Mishan non riusciva a capire perché. Quando finalmente percepì l’inconfondibile odore del fiume, comprese la ragione di quella trasformazione. Vicino ad Asekor, la foresta era ancora quella di sempre.
Il sole si spense nel remoto occidente, ma nel riverbero vespertino Mishan alzò un riparo per la notte. Si piazzò sulla riva del grande fiume, che a quell’altezza raggiungeva un larghezza di almeno duecento metri. L’immensa massa d’acqua, alimentata dai recenti temporali estivi, procedeva lentamente trasportando rami e detriti. Il cacciatore consumò una cena fredda e cercò un sonno leggero, quello tipico dei lupi solitari, che non possono permettersi compagni di viaggio che montino la guardia. Al minimo rumore sarebbe scattato in piedi, pronto a colpire.
Ma c’era una cosa che Mishan ignorava. Il fiume era ancora più antico della foresta, e conservava un segreto che trascendeva il tempo stesso, o almeno il tempo nel modo in cui gli uomini lo percepiscono. Il sonno lo rapì come un bambino, e viaggiò nei mondi di lato, osservando il vero ed il falso, la realtà e il sogno. Si svegliò ma stava ancora dormendo, e credendosi desto incontrò il Re del Fiume.
La foresta era giovane e il fiume scorreva lento. Un mattino di sole abbagliante, la rugiada fresca e gli uccelli nel cielo. Mishan guardò la figura avvicinarsi, un vecchio dal volto gentile con lunghi capelli lisci e scuri. Si accomodò di fronte a lui e incominciò a narrare una storia, ma come succede spesso nei sogni, pur volendo domandare o ribattere Mishan non riuscì a farlo. Rimase immobile davanti al vecchio ad ascoltare.
“Hai fatto la cosa giusta a venire da me. Io stanotte potrò proteggerti, ma domani riparti subito e lasciati alle spalle la foresta, perché anche se può sembrarti splendida e rigogliosa, sappi che in realtà è già morta. Esistono cose che si credono vive in eterno, ma che in realtà altro non sono che accanimenti alla vita. Gli elfi hanno abitato questi lidi per millenni e hanno creduto che ci sarebbero rimasti per sempre. È pur vero che la percezione del tempo per il popolo della foresta è oltremodo dilatata, ma anche per loro esiste un inizio e una fine. Kratoa, l’essere che ha mosso guerra a tutte le terre del sud, è stato l’avvento della loro fine. Non esistono spiegazioni che un uomo possa facilmente accettare. La vita è ciclica. Esistono stagioni di nascita, come la primavera, e stagioni di morte, come l’inverno. Gli elfi credevano in un estate imperitura, e si sbagliavano. Ma hanno rifiutato di scegliere di lasciare queste terre per un nuovo mondo, e come conseguenza sono rimasti prigionieri di questo. Né vivi, né morti, in una foresta che si crede viva ma puzza di morte. Fuggi uomo, e racconta questa storia, perché la gente sappia che la foresta è diventata malvagia, e solo il grande fiume ne ricorda ancora lo splendore. Addio!”
Mishan si svegliò e finalmente comprese che stava sognando, eppure quel sogno era in qualche modo più vero degli altri. Raccolse le sue cose e seguì il consiglio del Re del Fiume. Tornò velocemente sui suoi passi e prima che il sole fosse alto già era in vista delle praterie oltre la cintura di alberi secolari che delimitavano Uaki.
Volse lo sguardo verso la foresta prima di riprendere il cammino e lasciarsela definitivamente alle spalle. Gli sembrò di vedere una figura lattiginosa attraversare il sentiero che aveva appena percorso. Un brivido gli corse lungo la schiena. “La foresta vampira” pensò.
E da allora la gente la chiamò così.

GM Willo - 2009

lunedì 28 settembre 2009

IL FOLLETTO

Nel riflesso di uno specchio, dentro a un gioco di un bambino, dimora un folletto birichino.
È il bambino che lo muove, oppure è il folletto che guida la sua mano?
Vi giuro, non c’è niente di strano!
Cose di questo tipo succedono dappertutto, trasformano il bello nel brutto, ma più spesso il brutto nel bello.
Ho visto il riflesso correre lungo il muro bianco, l’ho visto sparire nella finestra e ritornare di fianco. Il bimbo gli andava dietro, rideva rapito. Il folletto sul muro correva divertito.
Una nuvola!
«Babbo, dove è andato il folletto?»
«Era stanco. È andato a letto.»

venerdì 25 settembre 2009

SEBASTIAN E LA REGOLA DEGLI ESTREMI


I.

Sebastian, primo cercatore e adepto del Tempio della Legge, non avrebbe mai creduto che sarebbe finita così presto. La ricerca dell’assassino dell’abate, nelle buie foreste del Mondo Mentale, avrebbe potuto protrarsi per mesi. Invece non era stato così.
I Maghi della Mente al servizio del Tempio erano stati scaltri. Dopo poche ore dall’accaduto erano riusciti a catturare il presunto colpevole, imprigionandolo nel Globo di Cristallo. E Sebastian, che solcando i freddi pavimenti dei sotterranei del tempio si dirigeva verso la prigione magica, pensava che forse neanche la sua ferra disciplina l’avrebbe trattenuto dall’impulso di scagliarsi contro colui che aveva ucciso l’amato abate. Stringeva i pugni mentre continuava il suo sicuro cammino. Nella sua mente rivedeva ancora l’immagine del maestro, la sua veste azzurra macchiata di sangue, il pugnale sacrificale piantato nel petto. Davanti a quella visione il cercatore aveva scoperto di riuscire a odiare. Un odio profondo, che precede la freddezza di un’azione calcolata.

Aveva raggiunto la porta della prigione quando la sua mente formulò il pensiero più profano: l’avrebbe ucciso… Ma la sua mano non voleva aprire quel chiavistello, non poteva. Se avesse ascoltato la sua rabbia si sarebbe abbassato alla stregua di quell’assassino. Così cercò di calmarsi, e gli insegnamenti del culto tornarono utili. Schiuse i pugni ed aprì lentamente fa porta.
L’assassino fluttuava a mezz’aria nella piccola cella di pietra, imprigionato in una luminosa sfera di vetro magico. La visione della donna paralizzò il Cercatore.
“Come avrei potuto ucciderla?” pensò Sebastian, richiudendo la porta alle sue spalle. E non riuscendo ancora a distogliere gli occhi da quella figura, si convinse che non doveva esistere un’altra simile bellezza su quella terra. Addormentata nel Globo di Cristallo, la fanciulla risplendeva in una veste cremisi, e i suoi neri capelli le scendevano delicati lungo il suo corpo perfetto. Era la Luna e il Sole insieme. E se pochi istanti prima l’adepto avrebbe voluto uccidere l’artefice di quel terribile misfatto, ora provava quasi paura a destarlo da quel sonno incantato.
Ma lei si svegliò da sola, come rapita da un misterioso incubo. I suoi occhi, come il mare in una notte senza luna, fissarono l’ammutolito Sebastian. Lui cercava di decifrare quegl’occhi, mentre strane sensazioni gli attraversavano la schiena. Era il ritratto della primavera e dell’estate, ma perdendosi nel suo sguardo, un freddo intenso gli ghermì l’anima.
Un brivido scosse l’Adepto. Con molta prudenza riuscì ad avvicinarsi alla prigioniera e incominciò a parlare.
«Il mio nome è Sebastian e sono il primo Cercatore del Tempio. Sei stata condotta in questa cella e rinchiusa nel Globo di Cristallo, perché sei accusata dell’assassinio del nostro abate, e di essere inoltre cultrice di arti magiche proibite. La prigione di vetro magico, come tu sicuramente saprai, annulla ogni incantesimo e quindi non ti sarà assolutamente possibile fuggire da qui. Come rispondi a queste accuse?»
Passarono alcuni istanti in cui Sebastian, rimanendo in silenzio, mantenne lo sguardo sul pavimento di pietra. Non ottenendo risposta, temette che non fosse stato udito, che il Globo di Cristallo avesse deviato il suono della sua voce. Sapeva però che non poteva essere così.
Poi, improvvisamente, la prigioniera rispose. La sua voce era calda e lussuriosa.
«Il mio nome è Diamante…» esitò un secondo «…e sono colpevole di ciò che mi accusi.»
In Sebastian affiorò un nuovo impulso di violenza che riuscì a sopprimere sul nascere. Riprese la parola.
«Sappi allora che sarai presto condannata dal nuovo abate. Dovrò comunque interrogarti sull’accaduto, se me lo permetterai. Nel caso tu ci venga in aiuto, é possibile che la tua condanna sia più clemente.
«Riconosco dai tatuaggi sul braccio sinistro che fai parte dell’oscura congrega che segue il Culto dell’Ombra Chiusa, ed è molto probabile che tu abbia solamente eseguito gli ordini dei Nove Maestri delle Ombre.
«Non avendo agito di tua iniziativa personale, è probabile che il nuovo abate ti condanni solamente a una morte veloce, salvandoti così dall’Annullamento.» La voce di Sebastian tradiva il tumulto emozionale di cui l’Adepto era preda. Un morboso interesse per quella donna disturbava le sue idee. Diamante, così chiusa e intoccabile, risplendeva come un cristallo dalle infinite sfaccettature. Era la Luce e le Tenebre, e Sebastian pensò al primo insegnamento del Culto della Legge:

Gli Estremi si osservano l’un con l’altro da distanze infinite
Ma se volgono lo sguardo indietro si scoprono accanto

Il globo emanava una luce soffusa che illuminava debolmente la cella. Diamante guardò nuovamente l’adepto. La sua rosea bocca accennò un sorriso. Era un sorriso indefinibile, ma presto Sebastian ne avrebbe scoperto il significato.
La voce di Diamante vibrò nella stanza.
«Caro Sebastian, come credete di potermi usare! Voi, primitivi stregoni, falsi adoratori. Voi che siete sempre meno e sempre meno convinti! L’Ombra Chiusa? Cosa potete capire voi dei segreti dell’Ombra? I riflessi dei pensieri, la telecomunicazione, i rapporti mentali. Come sono vergognosamente “aperte” le vostre menti! Che pudore e’ mai il vostro! Non capisci che non potrete mai condannarmi. I vostri maghi dovranno sciogliere il globo per potermi colpire, ed io avrò tutto il tempo per fuggire nuovamente nel Mondo Mentale. E questa volta non sarà così facile prendermi. Mi basterà solo un gesto.» Rise con una voce che era come scintille e cascate.
«Tu vuoi che vi aiuti? Che sciocco!» concluse la donna, continuando a ridere.
Mentre ascoltava quel suono argentino, Sebastian rifletteva sulla prossima mossa da fare. Diamante apparteneva all’Ombra, ma vi era qualcosa in lei che non poteva essere corrotta come le sue idee. Sebastian lo sapeva. Una tale bellezza non poteva essere completamente “chiusa”.
«Se è così che la pensi, significa che rimarrai lì dentro, a goderti l’immortalità del globo.» Adesso anche l’Adepto sorrideva. Aveva accettato la sfida, ma la donna non sembrava minimamente turbata dalla sua affermazione.
«Non potete trattenermi qui dentro per l’eternità. Il globo è mantenuto da un’energia mentale esterna e continua. Non potete sottoporre i poteri dei vostri maghi ad uno sforzo simile per un tempo indefinito. Secondo i miei calcoli, considerando il numero degli utenti di magia che si trovano in questa Rocca e la qualità dei loro poteri, credo che non rimarrò qui dentro per un periodo maggiore di quindici cicli di Luna. Non è vero Sebastian?»
Aveva ragione. Il Globo di Cristallo che annullava la magia, non poteva essere trattenuto in eterno. Sarebbe stato una perdita di tempo e di poteri. I suoi calcoli erano giusti.
Sebastian non sapeva cos’altro dire. Pensò che lei, perfida e magnifica, poteva essere amata ed odiata. Desiderava ucciderla e possederla. E mentre i suoi pensieri s’intrecciavano, pensò nuovamente alla prima regola del Culto. Doveva riflettere.
Fu con un gesto elaborato che Sebastian scomparve dalla cella, lasciando la prigioniera fluttuare nell’aria.

II

Sapeva di non potere dormire e difatti non ci provò neanche. Perso nelle sue riflessioni, Sebastian sprofondava lentamente nell’oceano degli enigmi. Pensava ai due Estremi; il Tempio della Legge e l’Ombra Chiusa. Potevano essere così vicini?
Lui era il primo Cercatore e solo il nuovo Abate aveva un potere superiore al suo. Lui doveva decidere. Ma la sua mente era in preda al caos.
Nel freddo della sua stanza, guardava la luce candele sul tavolo, cercando una risposta che non si trovava certo lì. Non sapeva se quello che Diamante gli aveva detto era la verità. Forse non sarebbe riuscita a fuggire prima di essere punita; prima di essere “annullata”. Poi, con grande orrore, scoprì che questo a lui non importava. Non riusciva ad ammettere a se stesso il suo desiderio.
Lui la voleva. L’avrebbe amata oppure uccisa. Non lo sapeva ancora, ma era certo che lui la voleva. E prima di aver deciso di voler tornare nella cella della prigioniera, l’adepto era già là.
Non ricordava se ci fosse arrivato per il potere del teletrasporto o attraversando i freddi corridoi del tempio. Non importava. Ciò che importava adesso era che lui era lì con lei, amabilmente addormentata.
Osservandola immaginò mille cose. Mille morti. Mille amori. Mille estremi.
Lei aprì gli occhi su di lui.
«Buongiorno» salutò lui con freddezza.
Lei lo guardò con distacco. Quello sguardo avrebbe potuto imprigionare qualsiasi animo, pensò Sebastian.
«Hai deciso di liberarmi, primo Adepto?» domandò lei con voce suadente.
Lui si avvicinò al globo. «No» rispose.
«Cosa farai allora? Aspetterai ancora qualche giorno per poter godere della mia bellezza?» lo derise lei.
«No» disse lui. «Ho deciso di entrare nel globo.»
La sua affermazione ebbe un effetto imprevisto sui pensieri di lei. Il suo sorriso svanì. I suoi occhi divennero freddi e infiniti. Poi una risata tenebrosa e sensuale percorse il silenzio.
«Hai deciso di trovare l’oblio» affermò Diamante ridendo ancor più forte. «Mi divertirò molto…» e la risata continuò a riecheggiare nei bui corridoi.

III

Tutto era pronto. I tre maghi che sostenevano il globo si trovavano attorno a Diamante, concentrati su Sebastian, che passo dopo passo si avvicinava a lei. Improvvisamente una porta argentea si materializzò sulla parete di cristallo. I maghi formulavano strani incantamenti. La porta si aprì leggermente e Sebastian varcò la soglia. Era davanti a lei.
E la porta si chiuse dietro di lui.

IV

Dopo che i maghi si furono allontanati su ordine del primo cercatore, i due rimasero nuovamente soli nella cella. La luce soffusa del globo illuminava i lineamenti dei due volti. Quello di lei; perfetto, misterioso e provocante. Quello di lui, risoluto ed insicuro al tempo stesso.
«Cosa vuoi fare adesso, Sebastian?» chiese lei squadrandolo con uno sguardo abissale. Ma lui non rispose. Era convinto che quello che stava facendo era bello e terribile. Era giusto ed ingiusto. Era vero e falso. Era bene e male. Erano i due estremi.
Si avvicinò a lei, e lei non si mosse. La prese tra le braccia con forza e delicatezza. Lei lo accolse senza dire una parola. Lui la spogliò della sua veste cremisi e lei fece lo stesso con lui. Erano avvinghiati come in una lotta. Nudi ed uniti l’uno con l’altra. E la luce e le tenebre divamparono dentro di loro, soffocando le loro menti.
Lui entrò in lei e lei entrò in lui, ed era quello che desideravano entrambi. Ma non era tutto. Le mani di lei che prima cercavano la passione, adesso cercavano qualcos’altro. Con una forza incredibile le dita di Diamante si strinsero attorno al collo dell’adepto, e Sebastian, travolto dalla passione e dall’odio, incontrò la gola di lei. Erano avvinghiati in una stretta fatale. Erano l’amore e la morte. Gli estremi che volgono il loro sguardo e si scoprono accanto.
Le strette si rafforzarono. Un gemito vibrò dalla bocca di entrambi, e all’apice dell’amore e del dolore tutto finì.
Il Globo andò in frantumi lasciando cadere a terra due corpi senza vita. Due estremità unite per sempre nella notte senza ritorno.

GM Willo 1995

martedì 22 settembre 2009

LA TORRE CHE DANZA NELLO SPAZIO E NEL TEMPO



Quel che rimaneva del crepuscolo andava perdendosi ad ovest, là dove il mare e le spiagge di Trygold si univano al margine di una striscia di terra sabbiosa. Rey-Hawk, dall’alto della scogliera a ridosso della costa, guardava dall’altra parte, una sporgenza di roccia bianca velata da una fitta nebbia color del vespro. Lassù presto sarebbe apparsa la sua meta. Aveva viaggiato molti mesi e cercato a lungo, ed infine era giunto fino alle sconfinate regioni settentrionali del Continente, fredde lande desolate dove i mari erano sempre inquieti, e gli uomini che le abitavano avevano un carattere scontroso ma fiero. In alto Aways, la luna azzurra, e Demhos, la luna rossa, gettavano lo sguardo su di lui e i suoi tre compagni di viaggio. Kya, la luna gialla, doveva ancora sorgere. Rey-Hawk, con la sua voce grave ma gentile, si rivolse agli altri.
«Dopo tanta fatica, credo che sia arrivato il momento di riposare. Il tempo prestabilito non è ancora giunto.» Detto ciò, posò a terra la sua sperana, il lungo bastone da Stregone-Guerriero munito di una corta e dura lama ricurva. Poi si accomodò in posizione di rilassamento, secondo le tecniche rituali della sua scuola. Lasciò che il vento gli scompigliasse i lunghi capelli grigi e gli accarezzasse i folti baffi. A occhi chiusi incominciò a cantare sottovoce un’ancestrale litania.
Gli altri, ormai abituati all’incantesimo di protezione che il capo del gruppo eseguiva ad ogni sosta, prepararono l’accampamento. Gereen, abile cacciatore delle terre dell’ovest, si avviò verso il vicino boschetto con la balestra in pugno. Aveva occhi buoni per cacciare anche nelle buie ore della sera, quando le ombre si fanno ingannatrici. Stepeleo il mezzo-goblin si occupò del fuoco. Quando la lingua di fiamma incominciò a danzare, i suoi occhi rossi luccicarono malignamente. Quella piccola creatura bastarda, al soldo dello Stregone, si era rivelata un buon servitore ed un ottimo scout. Poi vi era Oceana, adepta delle Sacerdotesse di Demhos, la luna rossa. Bellissimi erano i lineamenti del suo volto, nel quale dimoravano due occhi lunghi e penetranti. La sua pelle color del bronzo era cosparsa di curiosi tatuaggi, che rilucevano alla luce della luna. Lei preparò le vettovaglie, e benedisse il vino che versò in quattro coppe di bronzo.
Gereen tornò con dei conigli che il mezzo-goblin arrostì sul fuoco. Poi mangiarono e bevvero il vino benedetto, che addolciva la mente e rinvigoriva il corpo. Rey-Hawk si era fatto pensieroso e taciturno, mentre gli altri parlavano tra loro di leggende e vecchie storie, scherzando a volte per alleggerire l’atmosfera. Tutti quanti sapevano che, dietro un velo di nebbia sfuggente, uno strano destino li attendeva.

LA PENTOLA, IL GUFO E LA SORGENTE

Il gufo guardava la luna. Ogni notte la stessa cosa. Lui le chiedeva di venir giù, ma lei era timida, e si nascondeva dietro le nuvole. Allora il gufo imprecava disperato. L’amore è una brutta malattia.
Un giorno capitò uno straniero. Si assopì proprio sotto l’albero in cui dormiva il gufo. Il gufo si svegliò come al solito, dopo il tramonto, e si accorse di questo viandante, un tipo vestito di stracci e con un cappello a tesa larga.
- Lei cosa ci fa qui? – gli chiese, sporgendosi dal buco nel tronco che era l’ingresso della sua umile dimora.
- Cerco la sorgente… – rispose lo straniero, alzandosi e togliendosi il cappello.
- La sorgente del tempo? – chiese il gufo, che la sapeva lunga.
- Si. Ho barattato una pentola d’oro per sapere dove si trova. Spero di non essere stato ingannato – disse preoccupato il viandante.
Il gufo lo guardò con i suoi occhi giallissimi. Ormai era buio, e presto sarebbe dovuto uscire per cacciare. Ma quell’uomo lo incuriosiva. Un altro sognatore alla ricerca della mitica sorgente. Come se si potesse seguire semplicemente un sentiero per arrivarvi. La sorgente del tempo….
- No, al contrario. È sulla strada giusta. Ma permettetemi una domanda ancora. -
- Prego, signor Gufo. -
- Lei mi sembra un giovane in gamba. Come posso spiegare… Mi piace il suo cappello, ecco qua! Comunque, un tipo in gamba con un cappello come il suo perché dovrebbe barattare una pentola d’oro per sapere dove si trova la sorgente del tempo? –
- Beh, tutti vogliono sapere dove si trova la sorgente, no? -
- Appunto. E crede che una pentola d’oro possa bastare? -
Allo straniero sfuggì un mezzo sorriso. Il gufo si augurò che avesse capito. Poi si alzò in volo, scomparendo nel cielo scuro. La caccia iniziava…
Con l’oro non si compra la conoscenza. Al massimo si può rimediare una botte di vino, che non è male.
Lo straniero tornò a casa, deluso ma non affranto.
Il gufo invece tornò a guardare la luna.
- Dai, vieni giù! -
- Non posso, ho da fare…-
Che rizzacazzi, pensò.

GM Willo 2008

lunedì 21 settembre 2009

IL RISVEGLIO PIÚ DOLOROSO

«Questa non me la doveva fare!»
«Dai, non ti scaldare. Andiamo a farci un giro…»
«Eh, no, adesso me la paga!»
La chat-bath era schermata. Vi galleggiavano soltanto le diramazioni di Alex666 e HBTomahawk. Vibravano d’intensità variabili, alterate entrambe da droghe sintetiche e digitali. Bolle di sapone affioravano in superficie, esplodendo con un curioso “ploff”. Erano i banner di ultima generazione.
«Adesso gli entro nel deck e le friggo la fica!»
«Che cazzo dici! Dai, facciamo un salto al Volcano. Stasera deve esserci roba nuova.»
«Laggiù ci vanno gli stronzi, non lo sai. È pieno di spider, e le bambole che lo frequentano non sono altro che dei surrogati di fica, cosa credi? Vacci tu se vuoi, io preferisco farmi una sega…»
Alex666 aveva in circolo del God’s Opium mischiato a degli amplificatori di personalità. La sua ragazza gli aveva appena dato buca. Lui ci sapeva fare con le connessioni, conosceva le fognature della rete, poteva spiare attraverso le pareti, codificare i segnali in entrata, seguire le piste. L’aveva beccata a succhiare l’uccello di un professore. Il professor Crane del corso di lettere, per quanto poteva valere un corso di lettere, in una scuola allo sbando come la sua. A lui ci avrebbe pensato domani a rovinargli la carriera. Adesso voleva saldare i conti con lei… la stronza.
«Quel sudicio avrà almeno sessant’anni!»
«Ma che te ne frega! È solamente sesso teorico. Quei due non si sono neanche toccati. Davvero, non ti capisco!»
«Certo che non mi capisci. Perché sei uno stronzo come lei. Che differenza fa se lo fai su un letto oppure attaccato alla spina del tuo dannato processore. Lo fai, punto. La stronza ed io stavamo insieme, lo capisci questo? Lo capisci?»
«Ok, va bene! Ho capito. Che cosa vuoi allora?»
«Voglio uno di quei giocattoli»
«Cosa?»
«Un cazzo di occhiello, lo sai di cosa parlo!»
«Ma tu sei fuori!»
Gli occhielli erano dei gingilli proibiti. Li usavano le squadre governative per sedare gli animi in rete. Te ne agganciavano uno all’avatar ed eri finito. Causano la perdita permanente delle capacità induttive per la connessione. Il cervello non riesce più a riconoscere gli impulsi del deck. Hai finito di viaggiare fratello!
«Te ne è rimasto qualcuno, lo so!»
«Ascolta, quella roba è pericolosa. Se qualcuno riuscisse ad isolarlo potrebbe incastrarti. E poi risalirebbero a me. Ci sbattano dentro, amico, e ci strappano pure gli innesti. E a me non mi va di correre un rischio del genere!»
«Aspetta che carico la chat-bath di Amanda…»
«Che cazzo dici?»
«Il tuo fiorellino… ho da dirle un paio di cose. Le tue amichette del Volcano, ad esempio. Com’è che si chiamano? Samantha? Donna?»
«Non lo faresti…»
«Oh, certo che lo farei…»
«Stronzo!»
«Eh già!»
Una manciata di frame più tardi Alex666 viaggiava veloce nei corridoi alternativi della matrice. Schermava l’occhiello con un programmino di sua invenzione, lo specchio magico lo chiamava. Se qualcuno avesse provato a intercettare la sua proiezione, si sarebbe ritrovato davanti i propri codici d’accesso, che rivelavano l’identità dell’user. Avrebbe pensato ad un banale errore di sistema e avrebbe lasciato perdere la ricerca. Facile come cagare in piedi, si disse.
La stronza era ancora dentro. E chi la moveva quella. Fuori non c’era più nulla ormai. La grande recessione aveva trasformato il paese. Nelle strade si trovava solo desolazione, povertà, disperazione. Locali, negozi, centri commerciali. Tutto abbandonato. Tutto sbarrato. Per procurarsi da mangiare dovevi andare a fare la fila agli empori allestiti dal governo. Fuori era una merda, ecco cos’era.
E allora se volevi un po’ di svago dovevi trovartelo in rete. Le notti si passavano così a quei tempi, e sempre più spesso anche i giorni. La disoccupazione toccava livelli mai registrati prima. La violenza nelle strade era aumentata, insieme al disagio e alla sporcizia. No, era meglio starsene nella propria cameretta, a dormire il cybersonno.
Si stava rifacendo il trucco. Era pronta a riuscire, a succhiare qualche altro cazzo, pensò Alex666. Niente di male a farsi un videogioco. Quelli li usavano tutti, l’evoluzione della pornografia, un vero toccasana per le relazioni di coppia. Ma il sesso in rete tra due proiezioni non era molto diverso da quello reale. Anzi, poteva essere qualcosa di molto più intimo. Spesso gli avatar erano delle rappresentazioni più nude, più compiacenti, più aperte a nuove esperienze, e di conseguenza, paradosso dei paradossi, più vere. Ed Alex666 questo lo sapeva bene. Le avrebbe fatto passare la voglia, a quella troia!
Fece il suo ingresso nella private-room come una manifestazione paranormale, uno spettro del cyberspazio. Lei sussultò e gli sfuggì di mano il mascara. Acquistò lentamente consistenza, alto, longilineo, vestito di pelle nera. Un ciuffo gli ricadeva sugli occhi. Le mani sprofondate nelle tasche della giacchetta di pelle. Dentro una di quella vi era l’occhiello.
«Puttana!»
«Che cazzo vuoi?»
«Sei una puttana! Il professor Crane… quel vecchio bavoso!»
«Ma cosa dici? Ma sei fatto?»
«Ti ho vista nella chat-bath di Oregon, quel cazzo di social network per sfigati. Lui sul divano di velluto, te in ginocchio davanti a lui. E quella dannata musichina in sottofondo…»
Gli occhi di lei non potevano più nascondere il senso di colpa. Abbassò lo sguardo, ma lo rialzò immediatamente. La rabbia aveva preso il posto del dispiacere.
«Vaffanculo!»
Lui ci rimase male. Aveva creduto che si sarebbe messa a gridare, a disperare, a negare l’evidenza, forse addirittura a supplicarlo di non lasciarla. Invece lo aveva mandato a fanculo. No, questo era davvero troppo…
Le afferrò la mano. Lei reagì. Lui teneva l’occhiello in alto, una sottile fede d’argento dall’aspetto innocuo. Era pronto a mettergliela al dito, a tagliarli gli accessi, a confinarla per sempre nel mondo di fuori, quello vero, quello ormai perduto.
Un calcio nelle palle. Un banale calcio nelle palle. Perché un calcio nelle palle fa sempre male, sia fuori che dentro. Alex666, piegato in due dal dolore, si lasciò sfuggire l’anello. La stronza fu lesta ad afferrarlo e a metterglielo al dito. Il sogno svanì nel tempo di un click. Alex (solamente Alex) aprì gli occhi sul soffitto di camera sua. L’intonaco crepato, la serranda della finestra divelta, le cianfrusaglie in fondo al letto, la spia del deck accesa. Il più doloroso dei risvegli. La sua nuova realtà.
Alex realizzò tutto questo in una frazione di secondo. Udì i suoi genitori litigare nella stanza attigua. Nelle strade, dodici piani più in basso, gli arrivava il silenzio di un mondo in rovina. L’unico mondo possibile rimastogli.
Non ci pensò un secondo di più. E saltò.

GM Willo 2008

domenica 20 settembre 2009

L'ALBERO DI PERE

Il ruscello divideva il bosco. Sul lato ovest viveva l’orco Nando, su quello est suo cugino Lando. Ma l’albero di pere (le più succose di tutto il paese) vi cresceva proprio nel mezzo. Le radici affondavano da una parte, il tronco pendeva sul ruscello e le fronde piene di frutti ricadevano sull’altra sponda. Poiché i due orchi erano parenti non potevano farsi guerra, ed ignorando la matematica, non erano in grado di dividersi le pere. Perciò le guardavano marcire, e per sfogarsi terrorizzavano il paese.
Un dì venne un castoro col mal di denti che, abbattendo il pero, salvò il mondo.

GM Willo 2008 per 101 Parole

venerdì 18 settembre 2009

LA PIOGGIA DI STELLE

La luna era stata letta. Non lasciava molte speranze.
I Sarti rammendarono i palloni aerostatici. Tre grandissimi: uno giallo, uno verde ed uno rosso. Il primo si chiamava Linandir, il secondo Oussa e il terzo, cremisi come i tramonti delle spiagge di Boxala, Yuldra. Ogni cesta poteva ospitare dieci guerrieri. Trenta di loro non sarebbero bastati.
Ma il giorno moriva e le stelle si preparavano a cadere. Laggiù dove il mondo finisce, per dare modo ad altri mondi di nascere, la pioggia di luce si sarebbe riversata sulla terra. Inondando le valli ed i campi, avrebbe investito la città di Aviessa e i suo mille abitanti. Donne, bambini e cuccioli di drago. La dinastia millenaria spazzata via in pochi attimi. Forse un destino indolore…
Ma Imassan non si dava per vinto. Avrebbe guidato i suoi trenta guerrieri a bordo dei palloni, raggiunto le alte vette di Arsavia, affrontato la tormenta e dispiegato il suo potente ombrello. Trenta ombrelli incantati contro la pioggia di stelle.
In un sogno lontano un bambino aprì gli occhi. Anche lui sapeva della tempesta. Anche lui era a conoscenza della minaccia che incombeva sulle piccole lucertole. Un mondo senza draghi. Migliaia di storie perdute. Milioni di bambini senza storie.
Il tuono brontolava. La pioggia sarebbe arrivata, ma non era una tempesta come le altre. Mentre sua madre lo accompagnava a scuola, vide le bianche saette trafiggere il cielo, e si ricordò del sogno.
Scese dall’auto ed afferrò il grande ombrello verde dimenticato nel portabagagli. Sua madre lo guardò incuriosita, ma poi alzò lo sguardo al cielo e disse: «Prendilo si. Potrebbe servirti.»
“Sicuramente”, pensò il bambino.
Corse verso un grande edificio di mattoni rossi. Le prime gocce stavano già cadendo. Sperava che i guerrieri, guidati da Imassan, avessero già raggiunto le vette. Vide alcuni compagni di classe nel piazzale davanti all’entrata. Gli urlò: «Ragazzi, venite con me.»
Gli altri lo conoscevano bene. Conoscevano i suoi occhi, la sua determinazione, il suo spirito. Non gli chiesero niente ma, armati anche loro di ombrello, lo seguirono. Dietro la scuola c’era il parco giochi. Tra uno scivolo, un altalena ed un tavolo da ping pong, otto ragazzi si riunirono in cerchio. Il bambino con l’ombrello verde parlò.
«Ho sognato la città di Aviessa.»
Gli altri mormorarono, increduli e nervosi.
«Non abbiamo molto tempo. Le mongolfiere devono aver già raggiunto le montagne. Trenta guerrieri cercheranno di ripararsi dalla pioggia di stelle. Aspettano solo il segnale del loro capo. Dobbiamo aiutarli.»
Allora gli otto ragazzi afferrarono i loro ombrelli, pronti a muoversi al comando di colui che aveva parlato. La pioggia cadeva più fitta. Le saette continuavano ad esplodere nel cielo.
In un altro sogno le stelle incominciarono a cadere. Un uomo molto alto e con gli occhi di zaffiro, urlò il suo comando. Trenta guerrieri aprirono insieme i loro ombrelli incantati. Non sarebbero mai bastati se quel bambino non avesse udito la chiamata. I ragazzi nel parco giochi dietro la scuola aprirono a loro volta gli ombrelli.
La pioggia di stelle cadde. Poeti e innamorati la osservarono estasiati, del tutto ignari del segreto che nascondeva. La maggior parte degli uomini non bada a fenomeni di questo tipo, eppure la natura ci parla ogni giorno attraverso eventi del genere.
Gli ombrelli dispiegati nei due mondi, distanti nello spazio ma vicini nel sogno, salvarono Aviessa, la città degli allevatori di draghi. E salve furono così anche tutte le storie dei bambini in cui essi dimoreranno.

Aeribella Lastelle - 2008

giovedì 17 settembre 2009

IL TEMPIO SULLA MONTAGNA

Si fa chiamare Hal Roghaster, in onore al suo dio. Un corpo gracile, minuto, avvolto da una pesante tunica color porpora. Rune verdi e nere la adornano, preghiere in una lingua antica, codici proibiti che evocano le urla dei dannati. Hal Roghaster si aggrappa al suo bastone, alza il volto, due occhi giovani che hanno già visto l’inferno, le labbra serrate in un ghigno folle e risoluto al tempo stesso. È giunto alle rovine dell’antico tempio. È pronto a raccattare l’eredità dei sacerdoti maledetti.
Esiste un potere più forte di quello della conoscenza. Lui sa di essere ancora un adepto, ma c’è qualcosa che alberga in lui, qualcosa di magnificente ed oscuro. Neanche il grande patriarca della sua chiesa, con tutta la sua influenza, sarebbe in grado di offrire un dono simile. Nell’anima di ogni uomo si nasconde il retaggio delle stelle, un patrimonio incomprensibile ai più, le verità che trascendono il tempo e lo spazio. Lassù, negli angoli d’ombra del cosmo, dove dimorano gli dei primordiali, si assapora l’idea di un nuovo universo. Fuoco e oscurità…
Il tempio era sorto mille anni prima, tra le rocce affilate delle montagne del nord. Nei secoli il culto si era trasformato, adeguandosi alle necessità degli alti sacerdoti. Tutto iniziò il giorno in cui un prete, più interessato alla sua influenza sul mondo che al senso del grande disegno, lasciò il tempio sulla montagna. Scese a valle e fondò la Grande Chiesa. Riunì molti discepoli e divenne oltremodo potente. Ma nel frattempo il significato del culto si era modellato attorno alla comunità. Il tempio sulla montagna, che conservava il credo unico, scolpito nella Tavola della Parola dallo stesso dio, diventò agli occhi della gente un luogo di menzogna ed eresia. L’arcivescovo della nuova chiesa guidò personalmente un manipolo di fedeli invasati a distruggere il tempio.
Da quel giorno di morte e distruzione nessuno é più tornato sul sentiero che fende la roccia. Nessuno più conosce questa storia. Ma Hal Roghaster, tra gli antichi manoscritti nella biblioteca della cattedrale, aveva recuperato la pergamena di un monaco che ricordava la storia del tempio.
Sono passati quattro secoli da quello scempio. Le rovine spuntano ancora tra gli arbusti secchi, che faticano a crescere in quel luogo aspro. Nel cielo grigio, promettente tempesta, borbotta il tuono. L’adepto alza gli occhi e sussurra una breve preghiera. Ringrazia il suo dio, per averlo assistito, per avergli infuso coraggio, per avergli mostrato la strada. Adesso spetta a lui il resto.
Muove passi attenti sulle rocce scoscese ed umide. Gli angoli della tunica svolazzano al vento che si è appena alzato, quello della tempesta in arrivo. Hal Roghaster sa di dover fare in fretta.
Il richiamo è una melodia arcana, ripetitiva ed oscura, suonato con un flauto scordato, o soggetto a nuove bizzarre scale musicali. Lo sente nel ventre, muoversi come una vipera. È il richiamo dell’antica pietra, rimasta prigioniera delle macerie del tempio per oltre quattro secoli. Da quell’artefatto era nato il culto, con quell’oggetto sarebbe rinato. Prima avrebbe richiamato a se nuovi seguaci, animi puri, pronti ad incontrare gli oscuri angoli del cosmo. Poi insieme a loro avrebbe ribaltato la nuova chiesa, ormai corrotta fino alle sue fondamenta. Un nuovo grande tempio sarebbe sorto, un giorno. Hal Roghaster inizia a scavare alacremente, mentre immagina il ritorno dell’antico tempio. Sa che la pietra è sotto un metro abbondante di roccia. Glielo ha appena sussurrato il suo dio.
Mani gracili da bibliotecario afferrano, estraggono, sollevano sporcandosi di terra, graffiandosi, unghie rotte e palmi lacerati, l’adepto continua a scavare. Cadono le prime gocce, il tuono urla ma lui non ci bada e va avanti. È l’invasione dell’oscurità cosmica, un fiotto di energia vitale che gli corre attraverso le membra.
“Eccola” esulta il chierico. La pietra emana una strana luminosità, fin troppo evidente nella semioscurità di quel plumbeo paesaggio. Una tegola larga appena due palmi, su cui risaltano incisi bizzarri simboli di cobalto. Le parole del dio…
Ma i brontolii del tuono hanno nascosto gli ululai in avvicinamento. Hal Roghaster si erge nel mezzo delle rovine. La pioggia si fa insistente. Getta lo sguardo oltre le rocce alla sua destra e intravede cinque paia di occhi che lo puntano. Lupi delle montagne, affamati, letali come l’ascia di un orco.
Il primo si avventa su di lui senza neanche lasciargli il tempo di un respiro. L’adepto non è un combattente esperto, ma ruota tempestivamente il bastone davanti alla bestia famelica. L’estremità della staffa termina a testa di martello, metallo freddo e duro che si schianta con precisione sul cranio dell’animale. Il lupo crolla ai suoi piedi, ma subito un altro gli si getta addosso. Anche questa volta il chierico si dimostra più agile di quello che è in realtà. Mera fortuna o mano divina? La bestia scivola sulle rocce bagnate, il bastone-martello cala impietosamente sul grugno bavoso. Si ode un distinto “crac”, poi anche quello si accascia inanime.
Rimangono tre lupi, ma hanno visto abbastanza. Ululano alla luna nascosta dal cielo violaceo, poi tornano sui loro passi, perdendosi tra le rocce della montagna e la pioggia che batte più forte.
Hal Roghaster stringe tra le mani la pietra sacra. La tempesta incalza, ma adesso non ci pensa. Troverà una grotta in cui ripararsi, sul sentiero che scende verso la città. Il nuovo corso è appena incominciato. Lo aspettano molte notti da passare all’agghiaccio. La via del profeta è lunga e sinuosa, ma conduce molto più lontano di qualsiasi altra. Forse fino alle profondità del cosmo.
Nel cielo il tuono continua la sua canzone. I lupi ululano ormai distanti. Un uomo gracile, avvolto in una tunica purpurea, muove i primi passi verso un destino di fuoco e oscurità.

GM Willo - 2009

mercoledì 16 settembre 2009

L'ERRORE

«Abbiamo perso anche Merial» disse il guaritore all’allievo, lo sguardo perduto oltre l’oblò. Il ragazzo aveva gli occhi illuminati dalle esplosioni che si ripetevano in sequenza sulla superficie del pianeta.
«Dov’è diretta la nave, maestro?»
«Oujes, il settimo mondo. Oltre quello ci aspetta l’infinito.»
«Il Sole Nero arriverà anche laggiù?»
«Si. Non si fermerà.»
I Guaritori rimasero in silenzio, in bilico tra paura e rassegnazione. Il ronzio dei motori vibrava distante. Il resto dell’equipaggio non si muoveva dalla cabina di comando. Erano soli.
«Cos’è il Sole Nero?» domandò infine il ragazzo.
Il maestro gli regalò un sorriso amaro.
«Un errore» rispose.

GM Willo per 101 Parole - 2008

martedì 15 settembre 2009

I VEGGENTI DEL NUOVO MONDO

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Il collasso del mondo non avvenne dal giorno alla notte, come molti si aspettavano. Accadde lentamente, attraverso gli anni e le generazioni.
Fu come un complicato meccanismo, messo in moto da molteplici fattori; lo scontro tra religioni, l’esaurimento delle risorse energetiche, lo scioglimento dei ghiacciai, il divario tra i ricchi e i poveri e soprattutto l’odio e l’ignoranza accumulata nei secoli.
Giunto al punto di non ritorno, l’uomo decise di farla finita e di premere i pulsanti del suo destino.
Le distruzioni apocalittiche, derivate dall’utilizzo di ogni ordigno disponibile, oltre ad eliminare la maggior parte della popolazione terrestre, innalzarono ulteriormente la temperatura della superficie del pianeta, provocando lo scioglimento dei più grandi ghiacciai.
Le grandi metropoli, già distrutte dalle bombe, vennero sepolte dagli oceani che alzarono il loro livello di parecchi metri.
L’uomo venne spazzato via e la sua cultura moderna s’inabissò con lui.
Pochi sopravvissero, protetti dalle montagne, nascosti alla furia degli eventi.
Ci vollero anni prima che qualche comunità di uomini si riorganizzasse in uno stralcio di società. Piccole tribù, tornate a coltivare la terra e allevare animali, ben intenzionate a rimanere nel loro piccolo guscio e a non ricercare testimonianze della passata catastrofe.
Passarono gli anni e le generazioni, e le storie divennero mito. Il nuovo uomo non voleva sapere da dove proveniva, e rimaneva ben nascosto nelle verdi valli del nuovo mondo, lontano dalle rovine di quello vecchio. E questo era ciò che volevano anche i Veggenti.
I Veggenti erano una comunità di oscuri studiosi, conservatori dell’antica storia del mondo. Alcuni uomini percepirono l’imminente catastrofe, ma non volevano che la cultura dell’umanità si perdesse insieme al resto. Credevano che la testimonianza della loro storia e dei loro sbagli poteva essere la più importante eredità da lasciare ad una nuova possibile umanità. Un eredità necessaria per evitare un’altra futura catastrofe.
All’apice della conoscenza tecnologica, gli uomini potevano conservare in piccoli contenitori milioni di informazioni. Le memorie digitali erano dei veri e propri universi virtuali da esplorare. Le biotecnologie avevano cambiato il livello percettivo degli uomini che sondavano questi supporti. Se infatti un tempo erano dei dispositivi esterni che leggevano quelle memorie, riproducendole poi su uno schermo, si arrivò successivamente a leggerle con la propria mente, attraverso degli amplificatori percettivi inseriti nel cervello. Questo rivoluzionario sistema di lettura del digitale cambiò profondamente la percezione del virtuale. Si parlava di lettura mentale del virtuale.
Alcuni uomini, vissuti per anni leggendo memorie, acquisirono la capacità di entrare dentro queste anche a grandi distanze, e le generazioni a loro seguenti, per un bizzarro mutamento genetico, avevano l’innata capacità di poterle sondare senza alcun intervento al cervello.
Coloro che decisero di preservare la storia del vecchio mondo capirono che per farlo dovevano usare le memorie digitali e far sopravvivere la dinastia di alcune di queste persone capaci di poterle leggere.
Così si costruirono dei rifugi sotterranei, in luoghi segreti e inaccessibili, dentro l’eterna pietra delle più alte montagne, e qui si conservarono gli Scrigni della Conoscenza. A proteggerli vennero messi i Veggenti, coloro che potevano entrare e viaggiare dentro quegli scrigni.
L’ultima alba si accese sul mondo del vecchio uomo, e il sipario d’acqua ricoprì la grande era moderna. L’uomo sarebbe sopravvissuto, nella vergogna del suo passato.

…Ma in uno degli ultimi villaggi sopravvissuti, libero ormai dall’antico vincolo della microcellula familiare, la grande tribù attendeva con fermento la nascita di un nuovo cucciolo…tutti condividevano la paura e la gioia di quel momento, uniti dall’idea di essere “Uomini”, non di essere “parenti”.
Tutta la tribù aspettava quel momento con trepidazione, mentre antiche superstizioni riaffioravano dal passato, come ombre mai morte nella loro coscienza.
Il visionario vestito di piume e di pelli di coccodrillo si avvicinò alla capanna, suonando il suo magico sonaglio: cantava e ballava, come in preda a scosse elettriche e movimenti epilettici, inebriato dalle sostanze che aveva ingerito e bevuto, veleni figli della mutazione e della corruzione della natura…
Frutti che estendono la percezione, dal succo tossico e allucinogeno.
“OIE!ORANE’! GARANAH! PUATIE!” Urlava il vecchio, mentre la tribù seguiva muta la sua danza circolare. Le sue parole non significavano nulla in senso stretto, nulla a che fare con la logica, con il principio del terzo escluso o del principio di identità: frasi extralogiche, sparate dall’inconscio, sature di emozioni e di significato per una mente sensibile al cuore.
Un avvertimento, un monito per gli spiriti invisibili che scuotono la terra: “VIA! VIA!” sembrava urlare lo shamano “LASCIATELO STARE! VIA!”
E la danza continuava, accompagnata dal suono di pelli stese, battute con violenza dai percussionisti.
Il grido della donna squarciò la notte, sembrò smuovere le fiaccole fuori dalla tenda:
nessun pianto liberatorio…
Il terrore invase la tribù.
Da anni non vedevano un neonato, sano, intendo. La fossa di Rulakh, il crepaccio dove i bimbi nati deformi venivano gettati poco dopo la nascita, sembrava gemere affamato. Lo shamano gettò il suo sonaglio, entrò nella tenda, e la folla iniziò a mormorare come milioni di mosche.
Un altro fallimento?
Un altra maledizione?
Ma avvenne il miracolo, quell’evento straordinario che stupisce e incute timore, simbolo della nostra precarietà, della nostra incapacità di capire il mondo nelle sue intime leggi.
Il bambino crebbe sano e forte, imparò da Ughish a catturare i pesci-lampreda con l’aiuto dell’arpione, a sventrarli e cucinarli, imparò da Emre come si caccia con l’arco e come si scuoiano le prede per fabbricare indumenti, da Rutha apprese l’arte del canto, migliorò le sue doti di ballerino grazie ai consigli di Bomak, ma ciò che più lo stupiva, e che lo impauriva a volte, era il vecchio shamano Ghota.
Non parlava mai, soltanto nelle sue invocazioni e preghiere era possibile udire la sua voce,
il suo voto del silenzio poteva esser rotto solo allora, o gli spiriti gli sarebbero entrati dalla gola per afferrargli il cuore.
Ben presto il bambino crebbe, dopo 100 cicli lunari venne il momento dell’investitura: stava per ricevere il NOME.
Il ragazzo visse la preparazione a quell’evento con trepidazione e terrore: le donne lo lavarono e vestirono con le vesti rosse, intrecciarono i suoi capelli e tagliarono il suo codino, chiudendolo in una sacca.
Dipinsero il suo volto con il segno dell’UOMO e lo baciarono in bocca e sulla fronte, come per salutarlo, per dire addio alla sua infanzia.
In un modo orribile e pericoloso non vi era posto per il gioco, e l’uomo senza ancora un nome lo avrebbe presto imparato a sue spese. Le tende si aprirono, i tamburi vibrarono in un ritmo incessante, per arrestarsi di colpo al suo arrivo: era il momento.
Gotha era molto invecchiato, la sua curva andatura somigliava al moto di una goffa tartaruga piumata, difesa dal suo guscio di scaglie e adornata da mille sgargianti colori. Il vecchio agitò nell’aria il suo magico sonaglio, tutta la tribù si distese con il volto a terra, in un silenzio assordante. Impose le mani sulla fronte del giovane, spalancò la bocca per pronunciare il nome ricevuto dalle sue visioni la notte prima.
Ma il proiettile ad alta penetrazione mozzò la voce del vecchio in un grido soffocato, il petto esplose inondando di sangue il raggiante piumaggio. Gli uomini neri discesero dal cielo, mentre i draghi di acciaio comparivano come lampi oscuri da dietro le colline, affamati, spietati, imbattibili. Ovunque il rombo delle loro ali, dappertutto pioveva piombo mortale.
Presto le capanne arsero di fuoco chimico, la polvere cadde e si incendiò, uccidendo Rutha, Ughish, Bomak, Emre e tutti i suoi fratelli.
Ma lui sopravvisse. Inspiegabilmente, come un altro, prepotente miracolo, la sua vita non fu recisa quella notte. Non era ancora il momento, forse la morte non accetta anime senza nome, deve chiamarle per compiere il suo lavoro, e lui non ne possedeva ancora nessuno…
L’uomo che non aveva ancora un nome riuscì a fuggire, piangendo per giorni, maledicendo il cielo e gli uomini neri che gli avevano rubato tutto, anche il suo nome. Ma che non potevano sottrarli ciò che più lo rendeva Uomo.
La sua capacità di chiedersi “PERCHE’” la sua tribù fu sterminata.
“PERCHE’” gli uomini neri scesero dal cielo quella notte, la sua notte, per rubargli il nome.
“PERCHE’?” Tuonava nella sua testa, mentre la rabbia gli annebbiava la vista.
“PERCHE’?”

«Squadra d’assalto Manticora a rapporto, Signore.»
Il veggente oscuro rimase seduto sull’ampia poltrona di pelle, senza neanche voltarsi… Il fumo del sigaro vorticava nell’aria annodandosi, estendendosi, per poi contrarsi ancora, come un serpente sinuoso e spettrale:
«Avete raggiunto il bersaglio?»
«Raggiunto e Ripulito, Signore…»
Il Generale si voltò, ruotando lentamente la poltrona. I suoi innesti oculari brillavano nella sala, il freddo rumore dello zoom ottico squarciava l’aria.
Inquadrò le pupille del soldato, osservò ogni loro dilatazione o variazione, misurò con attenzione la tensione delle labbra, ogni segnale veniva registrato e confrontato con gli schemi emozionali installati.
«Avete prelevato il soggetto?»
I fotoricettori del generale segnalarono una variazione di 1.4 punti nelle pupille del soldato. Aspirò di nuovo il sigaro, per dare vita ad un nuovo miraggio di fumo.
«Non è stato possibile, signore, il soggett…»
Il generale lasciò cadere il sigaro, la moquette a scacchi bianchi e neri iniziò a crepitare debolmente.
Il Soldato deglutì debolmente, mentre l’uomo seduto si alzò, rivelando la sua immensa statura, frutto dell’esoscheletro al titanio vulcanizzato marcato Biotrust, un gioiello della bio-ingegneria post moderna: doppio polmone rivestito in sintederma a prova di PNX, fegato potenziato, apparato digerente agli acidi naturali, valvola cardiaca con triplo sistema di controllo del pompaggio, ed ogni altra futuristica protesi per estendere l’aspettativa di vita erano stati impiantati nella struttura portante, una cassaforte ossea inattaccabile, un oggetto unico ormai, un artefatto del passato irripetibile, un armatura sottopelle con sistema di manutenzione automatico a 64 cellule di nanochirurghi.
«Il soggetto…»
Tentò di continuare il soldato, ma il generale lo zittì con un gesto secco della mano.
«Riorganizza la tua squadra, arma i flyer, localizza il soggetto e portamelo VIVO.»
Il soldato non aggiunse niente, la fortuna lo aveva baciato, nessuna punizione o condanna,
un nuovo ordine, soltanto un nuovo ordine…
Quando si voltò, il sorriso ebete sul suo volto mutò in una smorfia di sgomento: l’ordine non era diretto a lui, ma al tenente Genkis, l’uomo che era entrato silenziosamente nel bunker come un predatore assassino.
Il generale sparò alla schiena del soldato con una vecchia calibro 12 da collezione, proiettile in oro, testa limata: il foro d’uscita sembrava un oblò di un sottomarino.
Sprizzi di sangue sintetico, pregno di droghe da combattimento e residui di stimolanti, macchiarono la cravatta del tenente Genkis, che osservò la scena senza batter ciglio.
«Ordine ricevuto, Generale. Non la deluderò…»
La moquette stava ormai bruciando, ma nel giro di pochi istanti, i nanorobot che componevano il tessuto si ridisposero nella stanza, questa volta formando un intreccio simmetrico di rombi e triangoli: isolarono le nanofibre danneggiate e le sostituirono con delle nuove.
Genkis uscì di fretta dal bunker, mentre un altro esercito di nanorobot iniziava il lavoro di ripulitura della stanza….
Il generale si adagiò sulla poltrona, reclinò lo schienale ed estrasse un altro sigaro maleodorante. Sul vecchio pacchetto la scritta -il fumo provoca il cancro-
“Non a me…” Disse fra se e se il Generale, mentre il doppio polmone si ripuliva da solo dal catrame residuo…
“Siamo noi il cancro del mondo.”
Si era messo a parlare da solo circa sei mesi fa: ogni volta che era sicuro di non essere ascoltato da nessuno commentava ad alta voce, ma non per parlare, per ASCOLTARE il suono di una voce che non lo chiamasse -signore- che non provasse paura o timore nei suoi confronti.
Quanto tempo era passato dall’ultima conversazione informale?
Non ricordava più il suono di una risata, il calore di una stretta di mano, una domanda, nulla di tutto ciò era presente nella sua memoria: soltanto ordini, direttive, comandi.
Ogni conversazione che ricordava era di tipo gerarchico: non parlava CON le persone, parlava ALLE persone, da una posizione di potere dove gli era concesso tutto, dove LUI era la verità dei fatti.
“Io sono un Dio… e un Dio non si ammala di cancro…”
Accese il sigaro e sospirò
“Si ammala di solitudine.”
Ma i rombi dei Flyer lo distrassero dai suoi pensieri, i reattori all’iridio fecero vibrare le pareti del bunker, come un piccolo sisma.
“Dove sarai adesso?”
Inspirò una lunga tirata, ed il sigaro brillò come un tizzone.
“DOVE?”

«SONO QUA!»
Per un istante il Generale credette che la voce prevenisse da qualche parte dentro la stanza. Invece era nella sua testa, in una diramazione sintetica del sistema percettivo. Era la voce di un ragazzo, squillante e nitida.
L’attacco lo aveva colto alla sprovvista, ma innalzò immediatamente un schermo protettivo. Erano anni che non ne faceva uso, ma riuscì velocemente a partizionare la mente, in modo che una porzione di questa non fosse accessibile da agenti esterni. Con quella avrebbe ragionato senza paura di poter dare un vantaggio al suo interlocutore mentale.
«Hai fatto presto a trovarmi» rispose il Generale, seguendo le onde cerebrali che lo avevano contattato ed entrando nella mente dell’intruso. Era come addentrarsi in una foresta vergine, un intricato universo di domande.
«Perché?» La testa del ragazzo urlava quella parola. Il Generale avvertì una pulsazione intensa all’altezza della tempia destra, una leggera fitta che lo sorprese.
Il contatto confermava i suoi timori, e dava un senso all’attacco portato a termine dai suoi uomini. Purtroppo non erano riusciti nel loro compito, e le conseguenze di questo fallimento potevano essere devastanti. Gli Scrigni della Conoscenza erano adesso alla portata di un quel giovane, e la loro lettura poteva corrompere le nuove generazioni.
Ciò che lo stupiva era la forza di quella proiezione mentale, l’intensità della sua “voce”, il controllo innato, la fisicità. Le menti potevano leggere, ma c’era chi raccontava storie di uomini capaci di manipolare la struttura attraverso il pensiero. Quelle storie le aveva sempre considerate leggende. Eppure il ragazzo lo aveva “punto”…
«Perché avete sterminato la mia tribù?»
Il pensiero era pregno di un pianto di dolore. Questa volta la “puntura” non arrivò alla fronte ma da qualche parte nel petto. La valvola cardiaca interruppe per un attimo la sua funzione di pompaggio. Il Generale si senti vacillare.
«Ragazzo, tu non capisci…»
Ma la frase si spezzò in un urlo. Un dolore lancinante come di carne lacerata gli esplose all’altezza dell’addome. Il Generale si piegò in due sulla poltrona girevole.
«Cosa non devo capire? Mi avete tolto tutto, anche il mio nome…»
“Pratiche tribali”, pensò il veggente con la parte schermata della sua mente. Ma si accorse che il ragazzo era riuscito a penetrarla, come luce che, filtrando in una camera oscura, rovina la pellicola. Si sentì sotto scacco ma non avrebbe mollato la presa. Forse quella era la loro unica possibilità di ritrovare il fuggitivo. No, non avrebbe azionato lo scudo mentale. Non ancora.
Come risposta ebbe una scarica elettrica che lo trapassò in verticale come un fulmine caduto da cielo. La potenza cerebrale del ragazzo era davvero notevole. Trovare le frequenze giuste per accedere alle banche dati sarebbe stato uno scherzo per un talento del genere.
«Quali banche dati? Cosa significa?»
Ci era cascato, maledizione. Aveva ormai completo accesso alla sua mente. Doveva alzare lo scudo…
«Cosa succede…» La voce del Generale era un sottile brusio. Dagli innesti oculari incominciò a sgorgare del liquido scuro che poteva essere un cocktail letale di sangue, olio lubrificante e materia grigia. Il suo corpo era completamente immobilizzato alla sedia. La mente era una stanza con porte e finestre spalancate, ma lui non poteva accederci.
Si sentì svuotare velocemente. I suoi pensieri, le sue conoscenze, le sue paure. Tutto fuoriuscì dalla sua testa, immagini mentali che, convertite in impulsi binari, viaggiavano attraverso l’etere alla velocità della luce.
Prima che l’oblio scendesse definitivamente sui suoi occhi, il veggente riuscì a formulare un ultimo pensiero. “Tutto stava per ricominciare!” Poi anche questa immagine fu trasformata in codici proiettati nello spazio.
Lo trovarono poco dopo due soldati. Il corpo ricadeva sulla poltrona come un sacco di stracci da lavare, gli occhi si aprivano a chiudevano come se gli innesti avessero subito un corto, mentre il liquido continuava a sgorgare macchiandogli gli zigomi. Lo sguardo dei due soldati si soffermò per un attimo sulla bocca del Generale che accennava un mezzo sorriso.
«Lo hanno svuotato.» disse uno.
«Avvertiamo Genkis!» rispose quell’altro.
Sulla moquette intanto i nanorobot continuavano le loro assurde pulizie.

Grezzo Illusivo - 2007

lunedì 14 settembre 2009

AMBRA

La foresta vestita di rugiada scintillava alla luce del sole appena sorto. Filtrava tra i rami, irrompendo attraverso le foglie, rimbalzando sull’erba in bagliori accecanti. Il tumulto della vita risiedeva in quei riflessi. Il giorno iniziava insieme ad un milione di vite, esistenze all’apparenza insignificanti, ma il grande druido sapeva che tutto faceva parte di un disegno: il disegno della Madre Suprema.
Il suo nome era Clarko, sacerdote altissimo della foresta dell’Alfheim. Solo un paio di anni prima aveva deciso di abbandonare le trame di palazzo, rifiutando i voti fatti alla chiesa di Karameikos. Nell’ipocrisia che vi risiedeva aveva trovato le ragioni per avvicinarsi alla foresta, un richiamo più forte di qualsiasi promessa di vita eterna. E così era successo. Spogliato di tutto ciò che aveva, superò le sette prove, divenne il più grande druido del continente. La sua dimora era adesso un’umile casa di legno nel cuore dell’Alfheim. I suoi nuovi compagni erano il lupo, il falco ed il gufo. I suoi vicini erano gli elfi ancestrali.
Le storie volgevano a capo. Tutto scorre in maniera ciclica, come le ragioni della terra, e le stagioni che si susseguono una dopo l’altra. Anche la civiltà doveva morire per rinascere, più giusta e più bella. Era l’autunno dell’uomo, il tempo in cui le foglie cadono e sulle montagne si scorgono le prime nevi. Presto il gelo avrebbe arrecato il grande sonno. Fino alla nuova primavera…
Pensava a questo e a mille altre cose Clarko, in piedi sul porticato di casa. Il lupo grigio giaceva ai suoi piedi. Teneva gli occhi chiusi ma non dormiva, ed ogni suo senso era all’erta. Gli uccelli cinguettavano partecipando al tumulto. Lumache, farfalle, funghi e violette, uno scoiattolo ed un riccio. Tutti prendevano parte all’evento, un rituale da non dare per scontato. La vita, in tutte le sue forme, anche le più aberranti, è la testimonianza della manifestazione della Madre.
Il lupo drizzò le orecchie. Clarko aveva intessuto sortilegi e preghiere a protezione di quel luogo, ma il fedele quadrupede riusciva sempre ad anticiparlo nel sentire la presenza dello straniero. Il druido si rivolse a lui mentalmente.
“C’è qualcosa che non va?” Il pensiero era tiepido. Entrare nella mente di un lupo era come abbandonarsi ad un’immersione ovattata, una sensazione che differiva enormemente dal modo in cui le persone conoscevano il lupo, animale freddo e solitario. Eppure la sua anima era profonda, fedele, dolce. Un abbraccio temperato.
“Sta arrivando qualcuno!” rispose.
Si, adesso l’avvertiva anche lui. Un uomo, oppure una donna, si muoveva per i sentieri nascosti che portavano alla sua dimora. Non si preoccupava di nascondersi, non avanzava accorto. Sembrava trascinarsi, spinto da una forza prepotente. Forse dalla disperazione…
“Vai a vedere!”
L’ordine fece scattare il lupo sulle quattro zampe. Si precipitò verso le alte querce che circondavano l’abitazione. Si dileguò in un attimo, ingoiato dalle ombre della foresta. Un minuto dopo il druido venne raggiunto dal messaggio mentale dell’animale. Una donna, disarmata, forse ferita, procedeva lungo il sentiero sud, quello che conduceva fuori dalla foresta, verso le terre di Darokin.
Clarko alzò una protezione, solo per precauzione. Non poteva correre rischi, anche se non sembrava che ce ne fossero. Ma erano tempi cupi; il volgere del ciclo, la resa dei conti. Forze opposte, eppure molto vicine, erano in guerra. Tutto si sarebbe risolto con la rinascita, ma non poteva esserci rinascita senza morte, dolore e distruzione…
Finalmente lei apparve, preceduta dal lupo grigio. Non sembrava badarci, nonostante le dimensioni della bestia, un esemplare unico. L’animale riprese posizione ai piedi del Druido, che ne frattempo era avanzato verso il giardino davanti a casa. Lei gli si fermò a una decina di passi, non più giovanissima ma sempre bella. La conosceva, certo che si. E come poteva non conoscerla, sacerdotessa e sposa del suo migliore amico. O almeno così era stato, fino a pochi anni prima. Ambra…
I capelli le ricadevano sul volto, in matasse aggrovigliate e sporche. Gli occhi arrossati lasciavano intuire che erano passati giorni dall’ultima volta che era riuscita a dormire. Le vesti lacere, infangate, gli avambracci e le guance pieni di graffi, indicavano che non si era preoccupata di scegliere i sentieri più sicuri. Ciononostante era sempre bellissima. Una bellezza umana, regale, antica in un modo che neanche gli elfi riuscivano ad apparire. Se infatti il popolo del bosco, con i suoi lineamenti delicati e le sue movenze signorili, si presentava aggraziato ed irraggiungibile, vi era qualcosa nella bellezza degli umani che trascendeva la normale percezione. Un’antichità cosmica dimorava negli occhi degli uomini, ed Ambra era tra i pochi che riuscivano ancora a mostrarla.
Il druido le andò incontro. Ebbe un attimo di esitazione, intuendo il pericolo che poteva nascondersi dietro la donna, ma poi lasciò fare all’istinto. In fondo era il sacerdote della Madre. Non poteva rimanere impigliato nelle ragnatele della mente.
Lei accettò il sostegno. Lui la condusse dentro casa, mentre il lupo li seguiva a due passi di distanza. La fece accomodare in cucina, dove la stufa intiepidiva il freddo ambiente. Lei si sedette al tavolo di quercia intagliato, mentre lui metteva a bollire l’acqua per l’infuso. Nessuno aveva proferito una sola parola. Erano i gesti che parlavano, per il momento.
Quando la tisana fu pronta, Clarko ne versò un’abbondante porzione alla sua ospite. Poi si accomodò sulla sedia di fronte e attese.
«É impazzito!» Il sussurro di lei era un grido di disperazione. Il druido non sembrò sorpreso. Le rispose: «Bevila tutta. Ti farà bene…»
Si abbandonò ad un pianto leggero, orgoglioso. Solamente due singhiozzi, poi negli occhi le ritornò il fuoco di sempre. Bevve un ultimo sorso, poi incominciò.
«Erano giorni che non si faceva vedere, che non risaliva dai sotterranei del palazzo. Mandavo gli inservienti a chiamarlo, ma lui alla fine non li riceveva neanche. Tornavano da me terrorizzati.
«Poi un giorno mi decisi ed andai a cercarlo. Se avessi sentito il fetore che proveniva da quelle stanze… L’oscurità ghermì il mio cuore, mentre scendevo gli ultimi gradini. Poi il corridoio, la porta, e più avanti, le tenebre.»
Il druido la guardò negli occhi e non riuscì a trattenere il suo disappunto, la sua paura.
«Il libro. Il Metic Lee…»
«Si, proprio lui. Voleva studiarlo, capire come distruggerlo. Invece ne è rimasto soggiogato.»
Un silenzio d’oltretomba piombò nella stanza. Sembrava che neanche gli uccelli della foresta avessero più voglia di cantare. Il nome di quel libro, essenza stessa del male, aveva incrinato ciò che vi era di bello intorno a loro. Il volto del druido divenne ancora più cupo. Rimase in attesa.
«Sono scappata. Non ho potuto fare niente per salvarlo. I miei poteri sono inutili contro di lui. E adesso si sta movendo, spinto da una forza inavvicinabile, la natura stessa del libro che ha preso vita in lui. Il tempo è giunto, grande druido…»
Ambra abbassò la testa, vinta dalla stanchezza e dalle contrastanti emozioni. L’uomo che amava, o che aveva amato, era diventato il messaggero della catastrofe. E lei non era riuscita a salvarlo…
Clarko le appoggiò una coperta sulle spalle. Aveva bisogno di stare da sola, di riposare. Chiuse la porta della cucina e uscì di casa insieme al suo fedele lupo. Una passeggiata nel bosco lo avrebbe aiutato a riordinare i suoi pensieri, ora più che mai in tumulto.
L’oscuro potere del Metic Lee era stato sprigionato. La distruzione era vicina. Ma per l’umanità che volgeva al tramonto, la distruzione era probabilmente anche la sola ancora di salvezza. Il male non dimora nella naturale ciclicità delle cose, che incomincia con la vita e si chiude con la morte, ma nella rottura di questo cerchio.
Poteva fidarsi di Ambra? Poteva prendere per vere le sue parole? Poteva affidarle il compito più grave, quello di rivolgersi contro il suo più grande amore?
Ma Adam non era più l’uomo che entrambi avevano conosciuto. Qualcosa di terribile si era insidiato dentro di lui, estirpando le buone radici, contaminando la sua anima, per uno scopo più grande: la rottura del cerchio.
Era giunto il tempo di partire. Non poteva più rimanersene lì, ad aspettare nuovi segni. I segni ormai erano arrivati. Di quali altre prove poteva mai aver bisogno? Doveva parlare con gli altri druidi, avvertire gli elfi, e poi mettersi subito in viaggio per il remoto nord. Lassù, nell’antico Regno Silvano, dimoravano le risposte di cui aveva bisogno.
Il sentiero lo ricondusse davanti a casa. Sperava che la donna si fosse accomodata nella stanza degli ospiti, e ne avesse approfittato per riposarsi. Una volta che avesse ripreso le forze, avrebbero parlato più nei dettagli di quello che era successo a suo marito.
Ma appena oltrepassò la soglia avvertì che la casa era vuota. Ambra se n’era andata. Forse era già molto distante. “Che stupido!” pensò, ma si rese conto che non aveva motivo di trattenerla. Lei aveva viaggiato giorni interi per rivelargli quello che era successo, ed era chiaro da che parte stesse. Era stata il segnale, la prova, l’innesco degli eventi futuri. Non poteva fare o dire niente di più. Oppure…
Il druido aprì la porta che dava sulla cucina. Scorse la coperta che le aveva sistemato sulle spalle, adesso riversa sul tavolo di quercia. La prese in mano ed allora lo vide. Il disegno del grande uccello, inciso nel legno antico, un’effige delineata da pochi precisi intagli. Era l’ultimo indizio lasciato dalla sacerdotessa. Il grande uccello era la chiave. Adesso toccava a lui unire i puntini del disegno.
Clarko era pronto a partire.

Michele Boccaccio

sabato 12 settembre 2009

L'ORSO E IL CACCIATORE

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Il bosco non è sempre un luogo oscuro e pericoloso. E’ bello a volte giocare vicino ai suoi margini, sbirciare dentro per vedere fin dove arriva lo sguardo e magari incontrare per caso uno scoiattolo che corre veloce lungo il tronco di un albero.
Ma se ci si addentra al suo interno, perdendo di vista il punto da dove si è entrati, è possibile perdersi e cadere in brutti pasticci. Come successe a Giada, un giorno lontano di una terra remota, mentre seguiva i sentieri dei cinghiali che si perdevano tra gli alberi fitti.
Ad un certo punto sentì da dietro dei cespugli un orribile grugnito, e il suo cuore si fermò per un momento quando un enorme orso bruno spuntò davanti ai suoi occhi, alto più del doppio di lei e con le fauci già aperte per morderla.
Giada se ne stette ferma come un sasso, con le gambe che non volevano più muoversi. Ma fu soltanto un attimo, poi si volse e incominciò a correre con tutta la forza che aveva.
L’orso scavalcò il cespuglio e le andò dietro, e meno di un minuto sarebbe durata quella rincorsa se un cacciatore, apparso d’improvviso come dal nulla, non fosse intervenuto. Si chiamava Airone, ed era un abile maestro d’arco.
Veloce come un serpente, il cacciatore scagliò una freccia proprio davanti all’orso bruno che, sorpreso ed intimorito, si fermò. L’animale volse lo sguardo verso l’uomo e parve capire il pericolo che si celava dietro una nuova freccia che era puntata su di lui.
Con due balzi poderosi l’orso si allontanò dalla ragazza e scomparve nell’oscurità del bosco.
Ancora in preda alla paura, Giada esclamò:
«Perché non lo hai ucciso?»
Airone la guardò con un sorriso nascosto tra la sua folta barba, e rispose:
«Non ce n’era bisogno. Uccidere fa parte della natura dell’orso, non della natura dell’uomo»
Mentre rimontava a cavallo il cacciatore indicò alla ragazza come uscire velocemente da bosco e gli raccomandò di non rientrarci più. Poi scomparve tra gli alberi per raggiungere in fretta le grandi praterie ad oriente, una strada che lo avrebbe condotto verso altre avventure.
Da quel giorno Giada si tiene molto lontana dalle profondità del bosco, e consiglia ai suoi amici di fare lo stesso. Ed ogni tanto pensa anche alle parole del cacciatore, e più il tempo passa più acquistano significato.

GM Willo 2007

venerdì 11 settembre 2009

27 SECONDI

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Il professor William De Waart vive in un penthouse sopra un palazzo di sedici piani ad Alkmaar. Dalla terrazza si distinguono le luci di Amsterdam e il mare, e sporgendosi oltre il balcone si vedono atterrare gli aerei sulla pista di Schipool. Uno ogni quarantacinque secondi.
De Waart non è più professore in realtà, e il suo non è propriamente un penthouse. Può definirsi un loculo, un appendice dell’appartamento più sotto di proprietà di un suo amico, grazie al quale il professore ha ancora un tetto sulla sua testa.
Il loculo è il suo salotto, la sua camera da letto, il suo studio e il suo laboratorio. Trentacinque metri quadrati invasi da apparecchi tecnici e processori. De Waart ha la barba e non conta più i giorni dall’ultima volta che ha usato un rasoio. Ha i capelli arruffati, le occhiaie che gli arrivano alle guance, ed emana un odore non piacevole. Povero professore, penso io che non lo vedo da quasi sei settimane. Che brutta fine…
Mi ha invitato per un tè, e la cosa mi ha fatto immensamente piacere. L’ultima volta che ci ho parlato stava raccogliendo la sua roba all’università, balbettando frasi confuse. O forse era confuso il mio olandese, che non sono mai riuscito a imparare decentemente.

giovedì 10 settembre 2009

L'ODORE DELLA TEMPESTA
















C’è il ritmo della vita nel movimento delle onde del mare. Le linee immaginarie lasciate sulla sabbia sono come le nostre vite, che appaiono per un attimo e poi scompaiono. Il Mare d’Ombra è oscuro e silenzioso, calmo presso la costa, ma letale al largo. In più punti affiorano letali scogli, per le galee che solcano la sua superficie. Dall’alto dell’albero maestro il marinaio lancia un grido di allarme, ma spesso la reazione del timoniere è lenta, il vento incalza la vela con troppo ardore, e la barca vira troppo lentamente. Il tempo sembra fermarsi durante la virata, e tutto resta sospeso, almeno fino alla tagliente esplosione del legno sulla pietra bagnata.
Adrik sedeva lungo la spiaggia, sopra una barca da pescatore ribaltata, e mentre osservava le onde pensava a tutto ciò. Un grigio mantello gli scivolava addosso, coprendo gli anelli d’acciaio della sua maglia e il fodero della sua spada. Zyra la chiamava, dalla lama larga e l’elsa in bronzo decorata nell’effige di Haki, il Dio dei mari metà pesce e metà uomo, Cavaliere delle Onde e Signore degli Abissi. Il volto dell’uomo, coperto da una barba ricciuta e scura, veniva carezzato dal vento salmastro, mentre i suoi occhi profondi studiavano l’orizzonte. Mirava lontano nell’assoluta certezza di poter presto avvistare qualcosa. Perché Adrik credeva nei sogni messaggeri, ed uno di questi lo aveva raggiunto la notte prima.
Sua moglie Jaline dormiva profondamente accanto a lui, nella fattoria sopra la scogliera. Dalla finestra la luna ammezzata occhieggiava all’interno della stanza. Adrik era sveglio, ma incapace di muoversi ed agire. La luna d’improvviso si spense e il volto del suo amico lontano gli apparve come sospeso sopra il letto. “Borgius”, provò a chiamare, ma le sue labbra erano sigillate. Allora il volto del suo compagno di avventure parlò, con un voce distante mille mondi. Gli disse: «Adrik mio amico, l’Orda ha oltrepassato la soglia. Ormai non c’è più tempo. Sto arrivando!» E mentre diceva ciò il volto scomparve. Era un sogno messaggero, un incantesimo che il suo amico Borgius conosceva bene e aveva già utilizzato in passato.
Adrik rammentava le vecchie avventure insieme ai suoi amici, prima di ritirarsi con la sua famiglia lontano dalle grandi città, sulla tranquilla scogliera dell’Isola di Udun. All’epoca il Continente era in subbuglio, le popolazioni in conflitto e i Signori dei Demoni cercavano il potere varcando cancelli proibiti. Insieme a Borgius e al povero Coral, aveva sfidato le creature più letali e terribili fuoriuscite dai mondi paralleli, ed aiutato l’Ordine del Tempo a riportare la pace sul Continente. Ma, dopo quindici anni, la pace sembrava terminata.
Il sole scendeva lentamente verso la linea disegnata dalle montagne dell’isola. Era un ottobre gentile, che dispensava giornate tiepide e luminose. Eppure da qualche giorno Adrik aveva notato l’accumularsi di strane nubi verso est, lungo la costa occidentale del Continente.
L’uomo guardava la linea d’ombra avvicinarsi alla spiaggia, mentre il vento del tramonto incominciava ad alzarsi. Lungo l’orizzonte del mare calmo, qualcosa incominciò a delinearsi. Era una galea leggera, che puntava diritta verso la spiaggia. Ben presto Adrik individuò l’uomo seduto a prua. Teneva la testa ben alzata e si puntellava in avanti con la spada, infilzata nel legno della barca. I suoi lunghi capelli scuri ondeggiavano nella brezza marina. Borgius e la sua Eeva. Così amava chiamare la sua lama. Non una spada ma una signora. Era lunga più del normale e aveva l’elsa calibrata in modo da poter essere utilizzata con entrambe le mani. Il grosso smeraldo incastonato poco sopra l’impugnatura era di origine magica. Borgius sarebbe potuto diventare un potente mago, ma aveva sempre preferito i campi di battaglia alle biblioteche. Ciononostante conosceva la segreta arte dei cristalli e la telepatia, oltre ad altre forme più comuni di potere.
L’amico alzò la spada al cielo in segno di saluto. Adrik rispose al gesto, mentre il suo volto si colorava di un sorriso raggiante.
«Figlio di un cane! Era l’ora che tu arrivassi!!» gli gridò incontro il guerriero.
Dalla barca si levò una specie di urlo, che subito si trasformò in un canto. Erano le parole di una vecchia canzone che i due compagni conoscevano bene. La cantavano insieme, quando c’era anche Coral, e marciavano senza paura verso un oscuro destino. Faceva così:

“Che importa se la strada già è battuta
dalla vecchia signora di nero vestita
che venga a derubarci della vita
tanto ormai l’abbiamo già vissuta”

Sorrideva con tristezza il guerriero mentre ascoltava il canto, perché la sua mente tornò a quel triste giorno in cui Coral perse la vita per salvare la loro. Gli occhi gli si fecero lucidi per un attimo, ma il vento del mare asciugò il ricordo, e la voce ormai vicina del mago lo coinvolse nel canto. Borgius si gettò verso la spiaggia prima che la galea si incagliasse nella sabbia, e Adrik gli venne incontro muovendo forti passi contro le onde. Giunti l’uno davanti all’altro, i due si abbracciarono violentemente, quasi in un rituale di lotta. Era bello rivedersi dopo così tanti anni.
«Per i mille squali di Haki, sei rimasto tale e quale! Fatti guardare!» Adrik prese il volto dell’amico tra le sue grosse mani e l’osservò.
«Che stregonerie vai facendo con il tuo volto!»
Borgius sorrideva con i lineamenti di un ragazzo, ma i suoi occhi erano quelli di un uomo.
«Non io… ma ho un paio di amici che conoscono dei trucchetti! Invece te sei ingrassato! Ma la forza è quella di un tempo, non c’è dubbio» ammise il mago, cercando di divincolarsi dalla stretta.
Dopo aver gridato alcuni ordini all’equipaggio, Borgius seguì il compagno verso la riva. Il sole sprofondava nel mare da qualche parte dietro l’isola, e la sera invitava i due compagni alla corte di un fuoco.
«Dobbiamo risalire la scogliera per raggiungere casa. Mia moglie ha acceso il forno di pietra per cuocere l’agnello. Poi abbiamo il nostro vino…» il guerriero faceva strada attraverso la spiaggia, e poi verso la parete di roccia.
«Proprio quello che ci voleva» commentò l’amico che lo seguiva dappresso.
Era quasi buio quando raggiunsero l’abitazione di Adrik. Una donna dai lunghi capelli castani venne loro incontro, accompagnata da un piccoletto riccioluto. Un cane si fermò proprio davanti alla madre e il bambino, per scrutare le due figure che risalivano il pendio erboso. Appena riconobbe il suo padrone, Haris, vecchio pastore dal pelo ormai grigio, gli corse incontro per fargli le feste.
«Guarda quel frugoletto, amico mio» disse Adrik mentre carezzava il cane. «Non ci crederai, ma già monta a cavallo da solo. E vuole pure che gli forgi una spada tutta per lui»
«Ha il sangue del guerriero, e scommetto che ha ereditato anche la tua testardaggine» commentò Borgius.
La cena fu allegra ed abbondante. I due amici parlarono dei vecchi tempi, come se avessero aperto un diario di ricordi. Il nome di Coral venne pronunciato spesso, accompagnato ogni volta da un breve ma profondo silenzio. Poi Jaline portò il Liquore di Udun, la forte bevanda ricavata da alcune rare erbe presenti solo su quell’isola.
Joki, il figlioletto di Adrik, avrebbe voluto rimanere insieme al padre e all’amico appena arrivato, ma la madre lo sollevò dal suo posto a tavola e lo portò, non senza alcune proteste, nella sua cameretta. I due guerrieri rimasero soli davanti al camino che scoppiettava. Entrambi sapevano che era giunto il momento di parlare d’altro. Avrebbero preferito rimanersene a bere tutta la notte, come facevano ai vecchi tempi, nelle locande delle grandi cittá. Ridere, scherzare, lasciandosi andare all’ebbrezza e poi al torpore dell’alcol. Ma non potevano permetterselo. No.
La tempesta stava arrivando.
«Partiamo domani» annunciò Borgius.
«Lo so…» rispose Adrik. E mentre osservava sua moglie rientrare nella stanza, sentì il suo cuore diventare pesante. No, non poteva ignorare quel presentimento, quella sensazione incomprensibile e sicura che gli ghermiva l’anima. Doveva dirglielo.
Questa volta non sarebbe tornato.

Aeribella Lastelle - 2008

mercoledì 9 settembre 2009

IL SANTO

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Il fiume ribolliva di sostanze letali, un miscuglio alchemico denso e incolore. L’odore invece era dolciastro e nauseante. Era un habitat impensabile per qualsiasi forma di vita, eppure si intravedevano dei movimenti in superficie, code deformi e pinne contorte. Erano le creature di un mondo sofferente, l’eredità dell’ultima cultura umana.
Il Santo cavalcava adagio lungo le sponde di quel miasma putrescente. La sua armatura era coperta di una sostanza viscida che solo con molta fantasia poteva ricordare il sangue. Era una poltiglia filamentosa e bianchiccia. Sfrigolava corrodendo le piastre d’acciaio della corazza e le allacciature di cuoio, ma lui non ci faceva caso. L’ascia che gli pendeva di lato ne era completamente imbrattata, ma sembrava non aver subito alcun danno. Era un arma particolare. Qualcuno l’avrebbe definita magica.
Il cavallo, un esemplare gigantesco e innaturale, era bardato di tutto punto. Da dietro la maschera che gli proteggeva il muso, due occhi di fuoco pulsavano inferociti. La bocca era un ghigno di sangue rappreso e bava scura.
Insieme, uomo e cavallo erano una macchina da guerra possente. Erano l’unica speranza per i pochi sopravvissuti, per le sporadiche comunità di uomini che cercavano di riorganizzarsi, di far fronte alla carestia, ai malanni, alla follia di creature deformi vittime della grande guerra. Ne erano sorte una decina attorno al tempio, il luogo dove dimorava il Santo. Villaggi di fango e paglia, di catapecchie arrangiate con i residui di antiche costruzioni. Lamiere, plastica, gomma e altri materiali. Erano il manifestarsi dell’attaccamento alla vita, contro ogni probabilità di sopravvivenza.
Nel tempio vivevano altri come lui. Forse in totale erano un centinaio, uomini che conservavano la conoscenza del vecchio mondo, abili maestri d’arme e custodi di insidiosi misteri. Erano solo cento, troppo pochi per resistere alle efferate orde provenienti dalle rovine della città.
Ogni giorno si combattevano delle battaglie lungo il Confine. Lo chiamavano così, una striscia di terra morta sulla quale niente riusciva a crescere. Nessuno si spingeva oltre quel punto. Ma dalle nebbie imperiture, che nascondevano le torri abbandonate delle antiche città, fuoriusciva di tutto. La carne si era fusa al cemento, il metallo e la plastica convivevano insieme ai tessuti organici. Laggiù, la chimica come la conosceva l’uomo di un tempo non esisteva più, gli atomi si comportavano in maniera bizzarra, e gli organismi sottostavano a nuove necessità. La priorità non era più sopravvivere, ma uccidere.
Il Santo si sentiva stremato. La battaglia lo aveva svuotato delle energie, prosciugato delle speranze. Per quanto tempo ancora avrebbero potuto respingere l’avanzata di quelle orde di follia? Ancora un anno forse, prima che oltrepassassero il confine, massacrando la gente dei villaggi, ammalando ancor più la terra sulla quale strisciavano.
Lungo il fiume non cresceva niente. Gli alberi vicino alle sue sponde erano diventante delle piante avvizzite e contorte. L’erba aveva lasciato il posto ad un ammasso di terra scura nella quale neanche i vermi vi risiedevano. Nel loro costante incedere, le zampe possenti del cavallo vi affondavano dentro.
Il Santo avvistò un uomo che scavava una fossa a pochi metri dalla riva. Quando si avvicinò a lui vide che era un giovane dallo sguardo malato. I capelli gli spuntavano in ciuffi disadorni, lasciando delle larghe chiazze di cute scoperta. Ai piedi del giovane giaceva il corpicino senza vita di una bambina deforme.
Il disperato si genuflesse immediatamente davanti al guerriero, lasciando cadere la vanga con la quale stava scavando.
«Alzati uomo, non è necessario che t’inchini» gli disse il Santo, che osservava con tristezza il vestitino rosa della piccina, macchiato di quella terra nera e malata.
«Noi del villaggio vi siamo sempre riconoscenti. La sera ci riuniamo attorno al fuoco e cantiamo per voi. Siete la nostra salvezza» dichiarò il giovane, continuando a rimanere piegato davanti al guerriero.
«Come vanno le cose al villaggio?» domandò il Santo. La tristezza si trasformava in sconforto, lo sconforto diventava stanchezza. Voleva tornarsene al tempio il più in fretta possibile, voleva abbandonarsi all’abbraccio della sua nicchia, ma non poteva ignorare quella povera anima desolata.
«Purtroppo continua a non nascere nessuno, signore. I bambini muoiono prima di raggiungere i tre anni. Questa era la mia quarta figlia. Si chiamava Luisa.»
L’uomo sembrava ormai incapace di versare altre lacrime. La sua voce era quieta e rassegnata.
«Mi dispiace…» disse il guerriero. Ma la sua mente era altrove. Era a casa, insieme a sua moglie e ai suoi due figli. Desiderava riabbracciarli, e rotolarsi con loro sul prato verde davanti a casa, mentre aspettavano che l’arrosto fosse servito. Avrebbero cenato insieme, riso davanti al camino, e poi gli avrebbe messi al caldo sotto le coperte.
La notte sarebbe stata solo per lui e sua moglie.
Assaporava tutto questo, mentre si perdeva nella tristezza degli occhi del giovane.
Lui continuava a parlare, ma il Santo riusciva appena a sentirlo.
«Forse dovremo spostarci più a nord. Abbiamo sentito che sulle montagne è nata una bambina sana la scorsa estate.»
«Si, forse dovreste spostarvi…» ma il Santo aveva risposto senza badare a quello che diceva. Era inutile, comunque. Oltre montagne vi erano altre rovine, altre città disastrate, altri veli di nebbia dai quali fuoriuscivano le creature dell’oblio.
L’umanità era come il corpo di un uomo preda di una malattia terminale. Cercava di resistere, ma nessuna medicina sarebbe più riuscita a salvarla.
«Adesso devo tornare al tempio. Porta i miei saluti al capo villaggio.»
«Lo farò, signore. Dio vi benedica!» Il giovane raccolse la vanga e se ne tornò a scavare la sua fossa.
A quelle parole il Santo non poté fare a meno di pensare a dio. Un sentimento di rabbia mista a divertimento gli fece digrignare i denti. Ma quale dio, pensò. Quello che ci ha condannato a questa assurda esistenza? Quello che ha sussurrato agli uomini di premere gli stramaledetti bottoni? Oppure quello che ha preso per mano il corpicino della piccola Luisa, dicendole “Vieni da me, piccola mia. Vieni a trovarmi!”.
Forse dio era esistito, mentre il mondo si avviava velocemente verso il suo epilogo. Forse qualcuno ci ha creduto veramente, e si è sentito rinfrancato, e gli si sono illuminati gli occhi. Anche nei momenti peggiori dio poteva esistere, bastava che esistesse una speranza.
Ma in un mondo privo di speranza non poteva esistere una cosa chiamata dio.
Il fiume continuava a scorrere denso. Il dorso di qualcosa di aberrante affiorò fuori dall’acqua, una creatura metà pesce metà macchina. S’inabissò subito, forse disturbato dalla luce del sole.
Poi raggiunse la grande curvatura. Il fiume voltava bruscamente verso sud, ma la meta del guerriero si trovava qualche chilometro più avanti nella stessa direzione. Il Santo si lasciò alle spalle il nauseante odore dei liquami e proseguì attraverso i campi. Un tempo erano coperti di grano, ma oggi ci crescevano appena le erbacce.
Finalmente in lontananza avvistò le ampie facciate di vetro scuro che appartenevano al tempio. Una struttura massiccia, fatta di metallo e cemento, disegnata nella forma di una pietra grezza. Era una costruzione moderna del mondo moderno. Del mondo che era stato moderno, e che adesso non esisteva più.
Si avvicinò all’edificio. Due guardie del suo stesso rango gli si fecero incontro salutandolo.
«Come è andata?» domandò uno dei due.
«Non è stato facile. Azim non ce l’ha fatta!» Azim era il suo compagno. Ne erano già morti quattro da quando aveva iniziato a combattere sul confine.
«Mi spiace» rispose la guardia in automatico. Morire era una cosa normale.
«Ho bisogno di tornarmene a casa per un po’» spiegò il guerriero, scendendo da cavallo e porgendo le redini all’uomo che aveva parlato.
«Certamente. Ci pensiamo noi a riportarlo alle stalle.»
Il Santo si diresse verso la porta del tempio. Era una porta di vetro, priva di alcuna effige o decorazione. Aveva solo due scopi; chiudersi e aprirsi.
Percorse un corridoio nel quale si diffondeva una luce soffusa, proveniente da alcune fredde lampade al neon. In fondo vi erano le cripte. Quindici livelli che si estendevano dal sottosuolo all’ultimo piano del tempio. Ogni livello ne ospitava una ventina.
Ordinate, una davanti alla altra, assolutamente identiche. Il Santo si avviò con passo sicuro verso la sua. Era al secondo livello superiore, la terza da sinistra. Si fermò esattamente davanti all’abitacolo, una fessura scavata nel muro. Slacciò l’armatura e la buttò per terra, insieme alla grande ascia. Qualcuno le avrebbe raccolte e pulite.
Poi entrò dentro. Gli innesti trovarono da soli la strada.
La collina verdeggiante si spalancò ai suoi piedi. Tenere urla di gioia riempirono l’aria frizzante di fine estate. Era un pomeriggio assolato, ancora carico della frescura di recenti temporali.
I due ragazzi gli vennero incontro, sullo sfondo di un casa di pietre grigie. Sua moglie sorrideva ferma davanti alla porta, pulendosi le mani al grembiule. Era bellissima.
Afferrò i due ragazzini e rotolò sull’erba insieme a loro. Le risa divennero acqua argentina che scorre. Il tempo parve fermarsi.
Poteva davvero esistere una realtà come quella che aveva appena lasciato?
Valeva davvero la pena considerarla realtà?
Sono a casa, pensò.
E tutto il resto non aveva più nessuna importanza.

GM Willo 2008