mercoledì 9 settembre 2009

IL SANTO

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Il fiume ribolliva di sostanze letali, un miscuglio alchemico denso e incolore. L’odore invece era dolciastro e nauseante. Era un habitat impensabile per qualsiasi forma di vita, eppure si intravedevano dei movimenti in superficie, code deformi e pinne contorte. Erano le creature di un mondo sofferente, l’eredità dell’ultima cultura umana.
Il Santo cavalcava adagio lungo le sponde di quel miasma putrescente. La sua armatura era coperta di una sostanza viscida che solo con molta fantasia poteva ricordare il sangue. Era una poltiglia filamentosa e bianchiccia. Sfrigolava corrodendo le piastre d’acciaio della corazza e le allacciature di cuoio, ma lui non ci faceva caso. L’ascia che gli pendeva di lato ne era completamente imbrattata, ma sembrava non aver subito alcun danno. Era un arma particolare. Qualcuno l’avrebbe definita magica.
Il cavallo, un esemplare gigantesco e innaturale, era bardato di tutto punto. Da dietro la maschera che gli proteggeva il muso, due occhi di fuoco pulsavano inferociti. La bocca era un ghigno di sangue rappreso e bava scura.
Insieme, uomo e cavallo erano una macchina da guerra possente. Erano l’unica speranza per i pochi sopravvissuti, per le sporadiche comunità di uomini che cercavano di riorganizzarsi, di far fronte alla carestia, ai malanni, alla follia di creature deformi vittime della grande guerra. Ne erano sorte una decina attorno al tempio, il luogo dove dimorava il Santo. Villaggi di fango e paglia, di catapecchie arrangiate con i residui di antiche costruzioni. Lamiere, plastica, gomma e altri materiali. Erano il manifestarsi dell’attaccamento alla vita, contro ogni probabilità di sopravvivenza.
Nel tempio vivevano altri come lui. Forse in totale erano un centinaio, uomini che conservavano la conoscenza del vecchio mondo, abili maestri d’arme e custodi di insidiosi misteri. Erano solo cento, troppo pochi per resistere alle efferate orde provenienti dalle rovine della città.
Ogni giorno si combattevano delle battaglie lungo il Confine. Lo chiamavano così, una striscia di terra morta sulla quale niente riusciva a crescere. Nessuno si spingeva oltre quel punto. Ma dalle nebbie imperiture, che nascondevano le torri abbandonate delle antiche città, fuoriusciva di tutto. La carne si era fusa al cemento, il metallo e la plastica convivevano insieme ai tessuti organici. Laggiù, la chimica come la conosceva l’uomo di un tempo non esisteva più, gli atomi si comportavano in maniera bizzarra, e gli organismi sottostavano a nuove necessità. La priorità non era più sopravvivere, ma uccidere.
Il Santo si sentiva stremato. La battaglia lo aveva svuotato delle energie, prosciugato delle speranze. Per quanto tempo ancora avrebbero potuto respingere l’avanzata di quelle orde di follia? Ancora un anno forse, prima che oltrepassassero il confine, massacrando la gente dei villaggi, ammalando ancor più la terra sulla quale strisciavano.
Lungo il fiume non cresceva niente. Gli alberi vicino alle sue sponde erano diventante delle piante avvizzite e contorte. L’erba aveva lasciato il posto ad un ammasso di terra scura nella quale neanche i vermi vi risiedevano. Nel loro costante incedere, le zampe possenti del cavallo vi affondavano dentro.
Il Santo avvistò un uomo che scavava una fossa a pochi metri dalla riva. Quando si avvicinò a lui vide che era un giovane dallo sguardo malato. I capelli gli spuntavano in ciuffi disadorni, lasciando delle larghe chiazze di cute scoperta. Ai piedi del giovane giaceva il corpicino senza vita di una bambina deforme.
Il disperato si genuflesse immediatamente davanti al guerriero, lasciando cadere la vanga con la quale stava scavando.
«Alzati uomo, non è necessario che t’inchini» gli disse il Santo, che osservava con tristezza il vestitino rosa della piccina, macchiato di quella terra nera e malata.
«Noi del villaggio vi siamo sempre riconoscenti. La sera ci riuniamo attorno al fuoco e cantiamo per voi. Siete la nostra salvezza» dichiarò il giovane, continuando a rimanere piegato davanti al guerriero.
«Come vanno le cose al villaggio?» domandò il Santo. La tristezza si trasformava in sconforto, lo sconforto diventava stanchezza. Voleva tornarsene al tempio il più in fretta possibile, voleva abbandonarsi all’abbraccio della sua nicchia, ma non poteva ignorare quella povera anima desolata.
«Purtroppo continua a non nascere nessuno, signore. I bambini muoiono prima di raggiungere i tre anni. Questa era la mia quarta figlia. Si chiamava Luisa.»
L’uomo sembrava ormai incapace di versare altre lacrime. La sua voce era quieta e rassegnata.
«Mi dispiace…» disse il guerriero. Ma la sua mente era altrove. Era a casa, insieme a sua moglie e ai suoi due figli. Desiderava riabbracciarli, e rotolarsi con loro sul prato verde davanti a casa, mentre aspettavano che l’arrosto fosse servito. Avrebbero cenato insieme, riso davanti al camino, e poi gli avrebbe messi al caldo sotto le coperte.
La notte sarebbe stata solo per lui e sua moglie.
Assaporava tutto questo, mentre si perdeva nella tristezza degli occhi del giovane.
Lui continuava a parlare, ma il Santo riusciva appena a sentirlo.
«Forse dovremo spostarci più a nord. Abbiamo sentito che sulle montagne è nata una bambina sana la scorsa estate.»
«Si, forse dovreste spostarvi…» ma il Santo aveva risposto senza badare a quello che diceva. Era inutile, comunque. Oltre montagne vi erano altre rovine, altre città disastrate, altri veli di nebbia dai quali fuoriuscivano le creature dell’oblio.
L’umanità era come il corpo di un uomo preda di una malattia terminale. Cercava di resistere, ma nessuna medicina sarebbe più riuscita a salvarla.
«Adesso devo tornare al tempio. Porta i miei saluti al capo villaggio.»
«Lo farò, signore. Dio vi benedica!» Il giovane raccolse la vanga e se ne tornò a scavare la sua fossa.
A quelle parole il Santo non poté fare a meno di pensare a dio. Un sentimento di rabbia mista a divertimento gli fece digrignare i denti. Ma quale dio, pensò. Quello che ci ha condannato a questa assurda esistenza? Quello che ha sussurrato agli uomini di premere gli stramaledetti bottoni? Oppure quello che ha preso per mano il corpicino della piccola Luisa, dicendole “Vieni da me, piccola mia. Vieni a trovarmi!”.
Forse dio era esistito, mentre il mondo si avviava velocemente verso il suo epilogo. Forse qualcuno ci ha creduto veramente, e si è sentito rinfrancato, e gli si sono illuminati gli occhi. Anche nei momenti peggiori dio poteva esistere, bastava che esistesse una speranza.
Ma in un mondo privo di speranza non poteva esistere una cosa chiamata dio.
Il fiume continuava a scorrere denso. Il dorso di qualcosa di aberrante affiorò fuori dall’acqua, una creatura metà pesce metà macchina. S’inabissò subito, forse disturbato dalla luce del sole.
Poi raggiunse la grande curvatura. Il fiume voltava bruscamente verso sud, ma la meta del guerriero si trovava qualche chilometro più avanti nella stessa direzione. Il Santo si lasciò alle spalle il nauseante odore dei liquami e proseguì attraverso i campi. Un tempo erano coperti di grano, ma oggi ci crescevano appena le erbacce.
Finalmente in lontananza avvistò le ampie facciate di vetro scuro che appartenevano al tempio. Una struttura massiccia, fatta di metallo e cemento, disegnata nella forma di una pietra grezza. Era una costruzione moderna del mondo moderno. Del mondo che era stato moderno, e che adesso non esisteva più.
Si avvicinò all’edificio. Due guardie del suo stesso rango gli si fecero incontro salutandolo.
«Come è andata?» domandò uno dei due.
«Non è stato facile. Azim non ce l’ha fatta!» Azim era il suo compagno. Ne erano già morti quattro da quando aveva iniziato a combattere sul confine.
«Mi spiace» rispose la guardia in automatico. Morire era una cosa normale.
«Ho bisogno di tornarmene a casa per un po’» spiegò il guerriero, scendendo da cavallo e porgendo le redini all’uomo che aveva parlato.
«Certamente. Ci pensiamo noi a riportarlo alle stalle.»
Il Santo si diresse verso la porta del tempio. Era una porta di vetro, priva di alcuna effige o decorazione. Aveva solo due scopi; chiudersi e aprirsi.
Percorse un corridoio nel quale si diffondeva una luce soffusa, proveniente da alcune fredde lampade al neon. In fondo vi erano le cripte. Quindici livelli che si estendevano dal sottosuolo all’ultimo piano del tempio. Ogni livello ne ospitava una ventina.
Ordinate, una davanti alla altra, assolutamente identiche. Il Santo si avviò con passo sicuro verso la sua. Era al secondo livello superiore, la terza da sinistra. Si fermò esattamente davanti all’abitacolo, una fessura scavata nel muro. Slacciò l’armatura e la buttò per terra, insieme alla grande ascia. Qualcuno le avrebbe raccolte e pulite.
Poi entrò dentro. Gli innesti trovarono da soli la strada.
La collina verdeggiante si spalancò ai suoi piedi. Tenere urla di gioia riempirono l’aria frizzante di fine estate. Era un pomeriggio assolato, ancora carico della frescura di recenti temporali.
I due ragazzi gli vennero incontro, sullo sfondo di un casa di pietre grigie. Sua moglie sorrideva ferma davanti alla porta, pulendosi le mani al grembiule. Era bellissima.
Afferrò i due ragazzini e rotolò sull’erba insieme a loro. Le risa divennero acqua argentina che scorre. Il tempo parve fermarsi.
Poteva davvero esistere una realtà come quella che aveva appena lasciato?
Valeva davvero la pena considerarla realtà?
Sono a casa, pensò.
E tutto il resto non aveva più nessuna importanza.

GM Willo 2008

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