venerdì 11 settembre 2009

27 SECONDI

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Il professor William De Waart vive in un penthouse sopra un palazzo di sedici piani ad Alkmaar. Dalla terrazza si distinguono le luci di Amsterdam e il mare, e sporgendosi oltre il balcone si vedono atterrare gli aerei sulla pista di Schipool. Uno ogni quarantacinque secondi.
De Waart non è più professore in realtà, e il suo non è propriamente un penthouse. Può definirsi un loculo, un appendice dell’appartamento più sotto di proprietà di un suo amico, grazie al quale il professore ha ancora un tetto sulla sua testa.
Il loculo è il suo salotto, la sua camera da letto, il suo studio e il suo laboratorio. Trentacinque metri quadrati invasi da apparecchi tecnici e processori. De Waart ha la barba e non conta più i giorni dall’ultima volta che ha usato un rasoio. Ha i capelli arruffati, le occhiaie che gli arrivano alle guance, ed emana un odore non piacevole. Povero professore, penso io che non lo vedo da quasi sei settimane. Che brutta fine…
Mi ha invitato per un tè, e la cosa mi ha fatto immensamente piacere. L’ultima volta che ci ho parlato stava raccogliendo la sua roba all’università, balbettando frasi confuse. O forse era confuso il mio olandese, che non sono mai riuscito a imparare decentemente.
«Professore, che è successo?» gli domandai.
«Gente stupida. Non capisce!» Il suo inglese aveva un forte accento, ma grammaticalmente era impeccabile.
«Il suo esperimento? Non ve l’hanno accettato?»
«Ja! Neanche a parlarne! Gente stupida…» e continuava a borbottare in quella lingua gracchiante.
«Ma perché se ne va?» gli chiesi io. Il professore mi era sempre stato simpatico. Non mi ero perso un suo corso da quando seguivo il programma Erasmus.
«Non li sopporto più. Basta. Devo continuare i miei esperimenti. Non ho tempo…»
«Beh, mi dispiace davvero…»
Lui allora mi lanciò uno sguardo carico di qualcosa che al momento non riconobbi. Fu quando mi arrivò il suo invito via e-mail che riuscii a dargli un senso. Era stato uno sguardo d’affetto.
Così mi trovavo adesso nel suo loculo. Le ventole dei processori frinivano come libellule. Nell’aria c’era un odore d’incenso ed applepie.
«Grazie di essere venuto. Metto subito il tè a bollire.»
I suoi movimenti erano impacciati. Sembrava impaziente.
«Purtroppo non è la giornata adatta per stare in terrazza, altrimenti potevamo sedere fuori.»
«Non si preoccupi professore. Mi fa piacere rivederla. Come se la passa?»
Ma potevo vedere, toccare e annusare come se la passava il vecchio. Non bene.
«Splendidamente figliolo! L’esperimento è finito!» L’euforia nei suoi occhi lo ringiovanì di cento anni almeno.
«E funziona?»
La mia domanda nascondeva una lieve ironia. Dico lieve perché tra tutti ero l’unico a dare un minimo di fiducia alle idee del professore.
«Lo vedremo ragazzo…»
Il fischio del bollitore interruppe bruscamente il nostro dialogo. De Waart servì del tè verde in due tazze di porcellana antica, insieme ad una fetta di torta di mele con panna montata. Il tavolo era totalmente occupato da circuiti stampati, appunti e migliaia di altri oggetti. Meno della metà di questi avevano un senso per me.
Dovevamo tenere il piattino in mano mentre mangiavamo, ma non era assolutamente un problema. Il dolce sapeva di sintetico, come tutti i prodotti di pasticceria olandese. In compenso il tè era squisito.
«Diceva dell’esperimento?» esordì io. La sua impazienza mi aveva contagiato.
«Ecco, si. Veniamo al punto. Ti ho invitato per partecipare alla prima dimostrazione.»
«Ha intenzione di provarlo adesso?» Dieci anni di ricerca, migliaia di ore passate davanti al computer, e finalmente il suo progetto stava per vedere la luce. E dove? Nel suo piccolo studiolo al diciassettesimo piano di un edificio sconosciuto.
La rilevanza del progetto era di proporzioni mondiali. La comunità scientifica, nel caso i risultati fossero quelli che il professore si aspettava, sarebbe stata completamente sconvolta. Per non parlare degli enti etici, filosofici e teologici.
Ma come succede sempre più spesso in questo mondo accelerato, dove l’informazione parrebbe alla portata di tutti, le cose davvero importanti rimangono dove devono rimanere. Nel sottosuolo di una cantina o nel laboratorio improvvisato di un vecchio professore in pensione forzata.
De Waart si avvicinò allo schermo. Il cursore lampeggiava in alto come facesse l’occhiolino. Digitò un comando e lo schermo divenne totalmente buio. Il disco rigido grattava come un forsennato. Presto si uni a lui il rumore degli altri due processori.
«Ha già inserito tutti i dati necessari?»
«Sono due giorni che non dormo. Si, ragazzo. Quello che stiamo per vedere sono i ventisette secondi precedenti al mio concepimento, attraverso la codificazione di ogni informazione raggiungibile. Non so davvero cosa aspettarmi.»
«Solo ventisette secondi?»
«Non mi è stato possibile spingermi oltre.»
A questo punto gli occhi del professore divennero due fessure, ed un sorriso beffardo gli si dipinse tra la dentiera.
«Sei pronto?»
Inviò il comando.
Lo schermo divenne bianco per alcuni istanti e poi nuovamente nero. In alto a destra comparve un cronometro. Il conteggio incominciò. Uno, due, tre…
Lo schermo rimaneva buio. L’esperimento era fallito. Mi scoprì a pensare che ci avevo quasi creduto, che l’entusiasmo del professore mi aveva davvero contagiato.
Ma ovviamente era tutta una bufala.
Poi al tredicesimo secondo lo schermo s’illuminò. Un chiarore bluastro, come il baluginio dei fondali marini. La luce s’intensificò fino a mostrare la dentatura di un grosso pesce, forse un merluzzo.
Le immagini si susseguivano come da un obbiettivo che retrocedesse davanti al soggetto. Al ventitreesimo secondo la figura del merluzzo era intera e frontale. Al ventisettesimo, momento in cui scattò il fermo immagine, il pesce era più distante e leggermente di lato. Il suo occhio fungeva da specchio.
Il professore si avvicinò allo schermo incuriosito e vide la minuta forma di quell’essere che era stato lui, prima di diventare quello che era. Una sogliola.
Si voltò verso di me e incominciò a ridere.
«Ecco perché non mi è mai piaciuto il pesce!» mi confessò.
E continuò a ridere rotolandosi per terra.

GM Willo - 2008

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