mercoledì 9 dicembre 2009

EREDITÁ SEGRETA

Ereditá segreta

Tullia si lasciò cadere dallo scivolo, col sole in faccia che le rubava il sorriso. Atterrò sulla sabbia e si rialzò in piedi di scatto, perché la sua amica Chiara stava venendo giù. Ebbe una breve sensazione di vertigine e avvertì qualcosa di caldo e bagnato. Il primo pensiero, il più imbarazzante, fu che si era fatta la pipì addosso. Ma c’era qualcosa di strano…
Allungò le dita sotto la gonnellina di fiori, sfiorando una patina umida che ricopriva le mutandine. Quando si guardò i polpastrelli trattenne un urlo e scappò via. Le amiche erano troppo sorprese per correrle dietro.
Sua madre l’aveva avvertita che sarebbe successo. Ormai aveva dodici anni compiuti, e le ragazze a quell’età diventavano donne, o almeno così si diceva dalle sue parti. A Chiara ad esempio erano venute un mese prima, ed era stata una mezza tragedia. A scuola si era data per malata, e ai giardini non si era vista per una settimana. Quando Tullia la rivide sembrava davvero cambiata. Che strano che era il corpo delle ragazze, aveva pensato.
E adesso succedeva a lei. Doveva tornare subito a casa, ma non dire niente al papà e alla mamma, perché quella situazione era davvero imbarazzante. Glielo avrebbe detto con calma, magari a cena, o meglio domani.
Entrò in casa dalla porta sul retro, quella che dava sul giardino, salutò veloce la madre che era impegnata col piccolo Luca, salì le scale tre alla volta e si infilò nel bagno. La doccia avrebbe gettato troppi sospetti sul suo rientro inaspettato, così optò per il bidè. Si sfilò le mutandine e le gettò lontano, poi si sedette sopra l’acqua e incominciò a pulirsi. Voleva vedere meno sangue possibile, non perché le facesse impressione, figuriamoci, ma perché la faceva sentire sporca.
La sua testa lavorava a cento all’ora. Doveva trovare quei pannolini che usava la mamma, afferrarne uno al volo e poi schizzare veloce in camera da letto per cambiarsi. Suo padre era a lavoro e non sarebbe tornato fino alla ora di cena. La madre la chiamò un paio di volte da basso, ma lei era stata veloce a risponderle con naturalezza che doveva urgentemente usare il bagno, il che non era proprio una bugia.
Il problema più grosso erano le mutandine, che senza neanche degnare loro di un’occhiata aveva scaraventato oltre il bordo della vasca da bagno. Giacevano laggiù, piene di sangue, ad imbrattare la ceramica tirata a lucido dalla madre. Le avrebbe sciacquate velocemente nella vasca e poi nascoste da qualche parte.
Si riscosse da quei pensieri. Quanti minuti erano passati, uno, dieci, cento? L’acqua del bidè continuava a lambirle le parti intime. Poteva bastare, pensò, e chiuse il rubinetto. Si asciugò con della carta igienica per non lasciare tracce e finalmente si alzò in piedi. Adesso le mutandine, pensò…
Si avvicinò alla vasca da bagno, gettò lo sguardo oltre il bordo, e vide esattamente quello che si era aspettata, ma non proprio…
“Che caspita significa?” sussurrò la ragazza appena fatta donna.
Non era la prima volta che vedeva il sangue, però quello era diverso. Glielo aveva accennato la mamma, e Chiara le aveva detto infatti era molto più scuro, quasi marrone. Ma ciò che vedeva nella vasca era ben altro.
Quando poco prima si era guardata le mani non ci aveva fatto caso. Il sole abbagliante le aveva giocato uno scherzo, o forse era stata la sua testa, fatto sta che aveva dato per scontato che fosse rosso. Invece…

mercoledì 18 novembre 2009

LA SINDROME DEL SENSO DI COLPA

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Carey Wolf apre gli occhi alle sette e trentacinque in punto. L’impulso viene da una zona circoscritta del cervelletto, quella destinata alle connessioni. La sveglia interna lo informa dell’ora, del giorno, dell’anno e degli appuntamenti in agenda. In meno di tre secondi Wolf è a conoscenza della temperatura esterna, di quella interna, della probabilità percentualistica di precipitazione e delle ultime news, settate secondo priorità: cronaca, politica, sport, annunci-incontri.
Carey Wolf vive in un penthouse che si affaccia su Londra. L’intero edificio è di sua proprietà, così come l’elicottero posteggiato sulla pista d’atterraggio, che è anche la terrazza del suo appartamento. Alle nove e quindici ha un appuntamento dall’altra parte della città; appena venti minuti di volo.
Sotto la doccia visiona il notiziario, mentre si veste conclude un paio di operazioni bancarie, davanti ad un caffè fumante contatta la sua segretaria, le da disposizioni, chiama Tokio, Parigi e Washington, il tutto senza toccare un solo dispositivo. Interfaccia cerebrale Mitros; trattarsi bene è un dovere.
La giornata sfila via senza intoppi. Appuntamenti di lavoro, lunch insieme agli amici, un salto in ufficio nel pomeriggio, il tennis club fino alle cinque, l’aperitivo con Tania, contattata attraverso l’open-chat Aphrodite, sushi accompagnato da un Krug Vintage, sesso in ascensore, giochi erotici e coca nella suite dell’Hotel Palace, ovviamente di sua proprietà. Il sonno lo rapisce felice.

sabato 7 novembre 2009

MIO PADRE E LA LUNA

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Era la notte del solstizio d’estate, e faceva un caldo bestiale. Lo sapete che quelle notti sono un po’ magiche, o almeno così diceva mia nonna. Mi affacciai alla finestra e vidi i pipistrelli girare come matti. Erano quasi le dieci ma c’era ancora un po’ di luce nel cielo. Per un bambino non era certo presto, ma io di sonno non ne avevo, così rimasi a guardare la luna, piena e gialla come un lampione. Anche lei aveva qualcosa di magico…
D’improvviso la vidi venir giù. No, non stava cadendo, sembrava invece che qualcuno la stesse tirando con una corda. Doveva averci un bel po’ di forza, pensai.
«Babbo! Babbo!» gridai io. Mio padre entrò di volata nella mia stanza.
«Che c’è , Amore?»
Io lo guardai al chiarore dell’astro, ed è così che me lo ricordo ancora. Sono passati tanti anni, e lui se n’è andato da un bel po’, ma quando chiudo gli occhi lo rivedo proprio come quel giorno. I capelli arruffati, gli occhiali con la montatura sottile, la camicia a quadretti rigirata alle maniche e due occhi ricolmi d’amore.
«Babbo, stanno rubando la luna!«
«Cosa?» E guardò fuori dalla finestra. Anche lui la vide che scendeva, sempre più in basso. Adesso era proprio sopra le cime degli alberi del bosco, quello vicino al villaggio.
«Presto, dobbiamo muoverci!» mi disse, ed io lo seguii, anche se ero in pigiama. Ma la notte era calda, e non c’era bisogno della giacca e delle scarpe.
«Dove andate?» domandò la mamma, vendendoci sfrecciare attraverso il soggiorno.
«Un missione importantissima…» iniziò mio padre.
«…dobbiamo salvare la luna!» conclusi io. Ed imboccammo la porta di casa.
Salimmo in auto e prendemmo la strada verso il bosco. Le luci e i suoni delle televisioni che fuoriuscivano dalle finestre dei vicini mandavano segnali rassicuranti, ma una volta che ci lasciammo il villaggio alle spalle la notte divenne meno gradevole. E poi il cielo adesso era completamente buio, perché la luna se l´erano portata via.
Mio padre parchéggiò al limitare del bosco, afferrò la torcia elettrica da sotto il sedile e uscì dall’auto. Io lo seguii. Avevo il cuore in gola, ma ero felice.
Percorremmo il sentiero guidati dal fascio di luce. Il bosco era fitto e tenebroso, e c’erano rumori strani, e i pipistrelli continuavano a volare bassi. Mi venne in mente la storia di un ragazzino del villaggio, che era stato attaccato da un pipistrello. Gli si era aggrappato ai capelli e non voleva mollare la presa. Glieli dovettero tagliare con le forbici, poverino.
Più avanti vedemmo una luce distante, tra le ombre degli alberi e dei cespugli.
«Ecco, sono là! Andiamo!»
Era la luna. Erano riusciti a tirarla giù, e adesso rischiarava quella parte del bosco. Corremmo in quella direzione, guidati dalla luce dell’astro. “Che avrebbe fatto mio padre?”, mi chiedevo. Ovvio, avrebbe preso a pugni il ladro e poi liberato in cielo la luna, come ogni eroe. Perché ovviamente lui era il babbo più coraggioso del mondo.
Mi facevo mille film in testa mentre correvo e sentivo il sangue correre nelle vene, sentivo il pericolo, la gioia, l’amore, e quando diventai grande e ripensai a questa storia capii che tutte quelle sensazioni insieme significavano che mi sentivo vivo!
Ero pronto a tutto, ma ancora una volta rimasi sorpreso, perché le notti magiche sono imprevedibili. Quando raggiungemmo la radura in cui l’astro era stato adagiato, venimmo abbagliati dalla sua luce e solo in un secondo momento riuscimmo a distinguere cosa stava succedendo. La luna era fissata a terra con corde ed arpioni. C’erano due uomini, all’apparenza normalissimi, con tute di jeans e casacche fosforescenti. Su retro di queste vi era stampata la scritta “Prontoluna”.
«Che succede?» domandò mio padre.
«Buonasera, niente di cui preoccuparsi» rispose uno dei due uomini. «Solo un controllo di routine. Cambio delle lampadine, verifica dei fusibili, normale amministrazione.»
Mio padre sembrò sollevato. Mi rivolse uno sguardo rassicurante e disse: «Hai visto Amore… nessun problema. I signori sono del Servizio Luna.»
«Prontoluna» precisò l’uomo, e consegnò a mio padre il suo biglietto da visita.
«Se ci sono dei problemi, non avete che da chiamarci.» concluse. Poi si rivolse al compagno.
«Tobia, sei pronto per lasciarla salire?»
«Si, possiamo liberarla.»
E così assistetti al più straordinario spettacolo della mia vita. I due uomini recisero le corde che tenevano la luna ferma a terra, queste schizzarono nell’aria per la tensione e in un baleno l’enorme palla gialla incominciò a sollevarsi, sempre più in alto, immensa e fulgida, ma leggera come una farfalla. Riprese posizione nel cielo insieme alle stelle, più splendente che mai.
Mio padre ed io ce ne tornammo a casa, frastornati e felici. Lui mi accompagnò a letto, mi rimboccò le coperte perché nel frattempo la temperatura era calata, e fece per chiudere la persiana.
«Babbo, lasciala aperta stasera. Voglio vedere ancora la luna.»
«Va bene Amore. Però poi dormi, va bene?» e mi baciò.
Non posso affermare con sicurezza se questa storia sia realmente accaduta. Forse era solo una delle tante favole che il mio vecchio mi raccontava prima di addormentarmi, quelle in cui amavo perdermi.
In ogni caso, a me piace crederci, perché ogni volta che guardo la luna ripenso a lui.

Aeribella Lastelle 2009

mercoledì 4 novembre 2009

LO SPETTACOLO DI SPYRA PER IL CAOS

Spyra

Un demone l’aveva ribattezzata Spyra, e quello era adesso il suo nome. La via oscura parrebbe la più facile, ma sono molti i sacrifici che attendono colui che desidera entrare nella cerchia dei prescelti, e guardare oltre il velo dell’oblio, là dove la morte muore e qualcosa di orribile ed eterno incomincia.
La donna attraversava i corridoi del tempio con una torcia in mano. Portava i capelli sciolti, neri e lunghi fino alla vita, e aveva indosso soltanto una veste leggera, blu scura, che le ricadeva sulle forme prosperose, grossi seni dai turgidi capezzoli e fianchi sensuali. Conosceva tutti gli aspetti di quel rituale. Le prime volte che se n’era servita era stata male, ma il ricordo dell’umiliazione e del dolore era ormai stato riposto in quei cassetti della mente che un mago deve sapere tenere ben chiusi.
Spyra avanzava con passo deciso, i nudi piedi sulla fredda roccia del pavimento, il profumo di muschio e acqua stagnante nelle narici, il rumore smorzato delle cascate sopra il tempio. Lei era la sacerdotessa suprema, divinatrice e negromante, conoscitrice dei subdoli giochi dei signori della morte. Aveva bisogno del loro aiuto, aveva bisogno di altre risposte, e sapeva bene qual’era il prezzo che doveva pagare…
A volte, anche nella quotidanietá degli eventi più terribili, ai quali ci si abitua perché la mente di un uomo non ha confini, affiorano dei ricordi inaspettati, non voluti. Spyra ricordò la canzone che cantava insieme a suo fratello, nel cortile della fattoria in cui era cresciuta, in tempi antecedenti la grande guerra. Afferrò una serie di cinque note, che ripeté nella sua testa per cercare di ricordare il resto del ritornello, ma per quanto si sforzasse non ci riusciva. Si sentì sciocca a pensare a Demion, ucciso durante una delle tante scorribande degli orchi. Neanche un graffio sulla corteccia del suo cuore. Neanche l’accenno di una lacrima. Era solo la canzone che la turbava, perché non riusciva a venirne a capo.
Era quasi giunta in fondo al corridoio. Oltre una porta scura di legno e ferro vi era la sala delle invocazioni. Laggiù non ci sarebbe stato posto per degli insulsi giochi di musica. Cancellò dalla mente il ritornello e appoggiò la mano sulla maniglia, avvertendo il freddo contatto col ferro umido. Spalancò la porta ed entrò in una sala circolare, rischiarata lievemente da due bracieri posti ai lati di un altare di pietra. La temperatura della stanza era più temperata, grazie ai due fuochi, e l’aria leggermente fumosa. Spyra inalò le essenze sparse sopra il fuoco dai suoi assistenti, che avevano preparato la sala, assaporando i primi effetti stordenti che aiutavano il rituale evocativo. Sul pavimento sette cerchi tracciati con della polvere d’argento si intersecavano nel punto in cui si trovava l’altare. Spyra prese posto davanti al tavolo di roccia, calcato da strani disegni. Gettò la torcia in un angolo della stanza e appoggiò le mani sulla fredda pietra che le stava davanti. Controllò il respiro, chiuse gli occhi, alzò la testa e poi incominciò a toccarsi…
L’incantesimo le salì alla bocca come un‘entità distinta dal suo volere. Con gli occhi chiusi salmodiò la litania scandendo perfettamente ogni sillaba, attenta ad ogni cambio di tonalità. Un errore poteva costarle molto più della vita.
E mentre le parole, graffianti e indecifrabili, gremivano le ombre della stanza, la mano dell’evocatrice scendeva verso il basso, sotto la veste turchina, tra le insenature del piacere. Adeguò il movimento al ritmo del salmodiare, lasciandosi trasportare dalle onde calde che dal basso ventre le salivano fino alle guance. Il canto salì di tonalità e di volume, la bocca carnosa della negromante intrecciava articolati vocaboli di un linguaggio sicuramente non umano, la luce dei bracieri divenne più intensa, tremolò e si offuscò alla cadenza del movimento del suo bacino.
Spyra, ormai preda e predatrice del suo organo del piacere, appoggiò un piede sull’altare, divaricando al massimo le cosce. Accostò la sua vulva, piena e rossa, al bordo della pietra rituale, continuando a sfregarla avidamente con le sue dita. L’evocazione era giunta al culmine. Dai bracieri una luce gialla ed abbagliante si riversò nella stanza. La temperatura era diventata quasi insopportabile. Rivoli di sudore le scendevano copiosi dal volto, deturpato dagli spasimi di piacere, ma lei non accennava a fermare la sua ascesa. Si adagiò con la schiena sulla fredda pietra dell’altare e continuò a urlare l’incantesimo, cavalcando onde di piacere inarrestabili.
La porta era stata aperta e qualcuno la stava guardando. Demoni e anime corrotte, nefandezze dell’oscurità, esseri dimoranti nel caos, frattaglie di esistenze un tempo appartenute all’umanità. Lo spettacolo era per loro, per invitarle al suo cospetto, e in tal modo poterle corrompere per un ennesimo bagliore di conoscenza.
Il finale le montò in gola, insieme all’orgasmo. L’ultima parola della canzone si perse in un urlo di piacere, infrangendosi sui bracieri e spegnendoli definitivamente. L’oscurità l’avvolse, ma non aveva bisogno di vedere chi era entrato nella stanza. Spyra rimase dov’era, distesa sull’altare a riprendere fiato, conscia del drappo scostato.
«Ti è piaciuto lo spettacolo, demone?»
«Come sempre, Spyra» rispose una voce grave come la notte delle notti.
«Allora adesso mi dirai ciò che ho desiderio di conoscere…»
«Certo, tesoro» disse il demone. «Poi ci divertiremo un po’…»

Jonathan Macini 2009

lunedì 2 novembre 2009

ANGELO TRADITORE

“E se alla fine del tuo lungo cammino incontrerai un angelo che ti sbarrerà la strada, per quanto tu possa desiderare di abbondare le tue stanche membra al suo abbraccio, dovrai combatterlo. Userai la tua lama affilata per recidergli le ali ed abbatterlo. Questo è il destino di un grande guerriero.”
Felix calò la scure nel petto della creatura di luce. Un dio vide quel gesto, ma aspettò a giudicarlo.
Esistono angeli traditori, ed il Bene, tra gli intrighi degli uomini, può diventare Male.
Quando la donna guerriero raggiunse i confini del mondo reclamando agli dei il suo premio, nessuno obbiettò.

Aeribella Lastelle - 101 parole

martedì 27 ottobre 2009

LO STREGONE RIPUDIATO

lo-stregone-ripudiato

«Volete sapere perché ho abbracciato l’Ombra? Ebbene, voglio raccontarvi una storia…
…la storia di un ragazzo diverso eppure uguale, con un talento particolare per la magia. Mentre i compagni di scuola la imparavano a memoria, quel ragazzo la stravolgeva, e presto capì che era questo il vero senso della via dello Stregone. Distruggere e ricostruire. Stravolgere e trasformare. I maestri non lo capirono, pensarono che non fosse adatto a controllare il potere e a conoscere i segreti. Aveva appena dodici anni quando gli sbatterono in faccia la porta del Grande Istituto della Divinazione. Suo padre era un mago apprezzato negli ambienti aristocratici, e l’onta subita per la cacciata del figlio lo mandò su tutte le furie. “Non puoi rimanere in città, figlio, e ringrazia il cielo che ti chiamo ancora così. Devi partire per l’Isola dei Cristalli.” Questo gli disse, strappandogli di mano il bastone da apprendista stregone.
Quel ragazzo pianse, ma non lo dette a vedere. Viaggiò verso nord insieme a una carovana di mercanti. Era poco più di un bambino, ma già la sua conoscenza magica poteva proteggerlo dai briganti e dalle altre insidie della vita errante. Giunse presso i lidi dei popoli pagani, ai confini dell’Impero. Una barca lo portò sull’Isola dei Cristalli, in cui dimoravano preti e filosofi. Gli aspettava una vita in ritiro, all’ombra di un severo monastero.
Ma laggiù conobbe un uomo di passaggio, una figura imponente e sottile, guizzante e indelebile. Il suo nome era Trakulda. I monaci del monastero non gli rifiutarono la sacra accoglienza, ma molti di loro non nascosero la loro inquietudine durante tutto il tempo in cui quell’uomo rimase ospite. C´era qualcosa nel misterioso Trakulda che affascinava il giovane. Una notte gli si avvicinò mentre leggeva un libro nei pressi del fuoco. Come rapito da un incantesimo, il ragazzo rimase ad ascoltare quell’uomo per tutta la notte, ma ricordò poco o nulla la mattina dopo. Sapeva solo che, una volta che si fosse rimesso in viaggio, lui lo avrebbe seguito.
E infatti lo seguì per molti anni. Anni di studio, di sacrificio e di evoluzione. Conobbe il Drago e i sette demoni principi, le meraviglie della terra e le insidie degli elfi, la testardaggine dei popoli guerrieri, la codardia dei pirati e la stoltezza dei nani. Vide il mondo cambiare e volgere verso un pensiero unico. Vide trasformare il Grande Istituto della Divinazione in un mero ingranaggio di un meccanismo inutile e corrotto, in cui il profitto di pochi contava più della conoscenza di molti. Dalla scuola uscivano schiere di maghi identici che andavano ad arricchire le file dell’esercito dell’Impero, che intanto allargava i suoi confini, creando nuove colonie e portando nuovi popoli sotto il suo vessillo.
Quel ragazzo nel frattempo crebbe e divenne uno Stregone, ma nessuno nell’Impero lo avrebbe mai chiamato così. Era un respinto, un reietto, un mago di strada, o più volgarmente un Fattucchiere. Doveva nascondersi perché, come sapete bene, chi usa la magia senza un diploma di mago è considerato un criminale. Se ne stava lontano dalle grandi città, insieme a Trakulda che intanto era diventato vecchio. Ma la vecchiaia non lo aveva afflitto, né nella mente né nel corpo. Il maestro stava semplicemente svanendo, e a volte il giovane lo guardava in contro luce, mentre il sole tramontava fulgido sulle praterie del Levante Antico, e poteva vederci attraverso.
“Dove stai andando”, gli chiese un giorno.
“Non preoccuparti. Un giorno mi seguirai” rispose lui.
Quando la Guerra dei Sigilli scoppiò il ragazzo era un uomo fatto, e il suo maestro si era ormai dileguato quasi completamente tra i misteri dell’aria. L’Impero cercava gli accessi agli altri mondi. Mandò i suoi cento migliori maghi fino ai confini delle terre conosciute, dove popoli misteriosi conservano i segreti dei molti mondi. Ne tornarono solamente tre, ed ognuno aveva un sigillo.
Ma il ragazzo diventato uomo aveva appena ricevuto una visita in sogno. Era Trixividian, il demone dei ghiacci. Gli disse che se l’Impero avesse avuto accesso agli altri mondi, il grande equilibrio poteva volgere irreparabilmente verso la Quiete. Ogni mago dovrebbe conoscere l’equazione tra Quiete e Tumulto. È il significato stesso dell’Universo, la sua legge principale. Ma la conoscenza di quell’equazione è stata rimossa dai testi di magia dell’Istituto.
Al suo risveglio lo Stregone seppe cosa fare. Cavalcò per due giorni e due notti incontro a quei tre maghi che stavano facendo ritorno con il loro bottino alla capitale. Al loro passaggio venivano salutati da una folla di uomini e donne in delirio. Erano gli eroi, i salvatori, vanto e abbaglio di ogni cittadino dell’impero.
Mentre cavalcava lo Stregone richiamò gli altri demoni, perché lui era la porta. Gafiquel degli abissi marini, Adkavri delle caverne, Uxod dei cieli, Trixividian dei ghiacci, Matu del fuoco liquido, Irkk dei fulmini, Odasset dei cristalli. I Demoni vennero e spazzarono via il popolo, i soldati e a nulla servirono gli incantesimi dei tre eroi. I Sigilli vennero recuperati e consegnati allo Stregone che aveva evocato i demoni.
Da allora quello Stregone è conosciuto col nome di Jakúda, il servo dell’Ombra. Da allora Jakuda è il peggior nemico dell’Impero.
E adesso che conoscete la storia, ditemi: che motivo avrei di consegnarvi i sigilli?»

Il fuoco esplose, l’ombra calò, le urla si alzarono e si spensero nel tempo di un battito di ciglia. Si erano sentiti eroi, si erano creduti dalla parte della ragione, pensavano che il cielo li avrebbe protetti, invece…
Dall’alto della sua torre Jakúda attende i suoi prossimi nemici. Nessun rancore, solo una missione: tenere al sicuro i Sigilli, anche al costo di rimanere per sempre un reietto.
Forse un giorno il mondo sarebbe cambiato. È successo altre volte in passato, e quando questo accade, il ruolo dei giusti si ribalta e la percezione del popolo si dilata.
Ma il prezzo del cambiamento è sempre molto alto.
“Avrei potuto desiderare di più dalla vita?” pensa il solitario Stregone, perdendosi negli ocra di un tramonto infuocato.
“La solitudine è il prezzo della verità” gli sussurra il maestro, prima di scomparire del tutto in una linea di fumo.

GM Willo 2009

lunedì 19 ottobre 2009

MALIARDO

Le vite si assottigliano. Diventano impulsi sparati alla velocità della luce. Non servono vere e proprie maschere per ingannare il prossimo. Bastano delle veloci caricature. Due fregi e sai chi sono, ed è tutto quello di cui hai bisogno di sapere…
La manipolazione di queste vite sottili diventa una banale conseguenza. Niente di preterintenzionale. Nessuna malizia. Si tratta solo di una semplicissima selezione naturale. Io mi muovo veloce, tu invece sei lento, non hai possibilità, sei spacciato. Annientarti non rientra nei miei piani, ma succede, come il sole che squarcia le tenebre all’inizio di ogni giorno.
Mi dovrei sentire in colpa? E perché? Non ho dato spinte. Non ho drogato nessuno, io. Mi sono limitato ad indicare alcune strade. Possibilità, tutto qui. Se volete condannarmi, fatelo pure, ma continuerete a non dormire la notte, mentre io ho sempre dormito benissimo, prima e dopo quel giorno di luglio.
Nikko88 e Sammysamantha si chiamavano. Il nickname può bastare per adesso. Il resto, se volete, lo potrete leggere sui giornali, rotocalchi spazzatura per comari annoiate. Io mi rifaccio solo alle caricature con le quali mi si sono presentati, e se a voi interessa la mia storia, dovreste farvene una ragione. Ragazzo, ragazza, bambino, vecchio. Che importanza può avere. Il gioco è gioco. Nel labirinto di specchi sei solo un’immagine riflessa. Un riflesso elevato a potenza.
Volevano risposte ed io gliel’ho date. Volevano un po’ di “action”, e quella c’è stata, non ci sono dubbi. Ma non potete addossarmi la colpa, eh no! Non sono stato io quello che li ha rivestiti di tritolo. Non guidavo il taxi che si è fermato davanti al palazzo del governo. Non ho dato il via a quella loro corsa sfrenata verso l’atrio dell’edificio. E soprattutto, non sono stato io a premere i pulsanti.
Di chi è la vera responsabilità di tutta questa sporca faccenda? Pensateci un po’. Vi sembra giusto quello che ci sta succedendo? Continuiamo a venire trattati come un branco di pecoroni, inebetiti dalle solite facce e dai medesimi slogan. Parole vuote che dilatano i tempi, attutiscono gli animi, sdrammatizzano realtà che sono ormai al limite della sopportazione. Quando la botte è piena fino all’orlo, basta un niente per farla rovesciare.
Chi vuol capire, capisca. Chi non lo vuole, pace all’anima sua, perché è già morto dentro. Incapace di accettare l’inevitabile evoluzione degli eventi. Lo spettacolo è finito, gente!
Non provate a rintracciarmi. So come dileguarmi tra le spire della rete. Posso prendere forme nuove, mimetizzarmi dentro server-spettro, moltiplicarmi infinitamente e ripropormi all’interno di pop-up commerciali. Riposerò nel vostro hard-disk stanotte, se per voi sta bene…
Mi rimangono un paio di minuti. Tutto quello che volete. Sono a vostra disposizione. Amore, guerra, morte e miracoli. Ho una risposta ad ogni vostra domanda. Su, provate a chiedermi qualcosa… Ma vi prego, non ritenetemi responsabile delle eventuali conseguenze. Causa ed effetto. L’universo va avanti così da sempre. Se vi piace giudicare con questo vostro assurdo metro, se proprio avete bisogno d’incolpare qualcuno, allora rivolgetevi al padreterno. È stato lui l’artefice di tutto, o sbaglio?
Addio gente. Preparatevi al peggio. Un milione di bombe umane vi aspettano. Cinema, supermercati, uffici, centri commerciali. Sarete al sicuro solo nelle vostre case. Davanti al vostro computer. Ed è proprio lì che vi verrò a trovare.
‘Notte gente…
Sogni d’oro!

GM Willo 2008

mercoledì 14 ottobre 2009

I DIVINATORI DEI CRISTALLI

Tra le spire del tempo riposa una storia che non si deve sapere.
I custodi delle storie proibite sono demoni con zanne affilatissime, che pattugliano gli scrigni in cui esse risiedono. Vergate sopra antiche pergamene, corrose dal tempo ma pur sempre indelebili, attendono il giorno in cui qualcuno le rivelerà al mondo. Perché per quanto le si possa nascondere, per quanto le fauci digrignanti di mostri alieni vi stiano di guardia, queste storie desiderano uscir fuori.
In una terra di sogno chiamata Liberzia, vivevano molti popoli diversi tra loro. E come sappiamo tutti, le diversità fomentano insofferenze. Perché l’uomo è una creatura insicura, e galleggia nel mare del tempo senza nessuna direzione, come una medusa gelatinosa.
Il popolo più forte di tutta Liberzia erano i gli abitanti di Krystalos, una terra bellissima e ricchissima che si trovava ad est del grande continente. Erano i divinatori dei cristalli, e per questo si chiamavano Krysni. Indossavano vesti sgargianti, abitavano in palazzi lussureggianti, e tutti gli altri popoli li guardavano con rispetto e timore. I Krysni usavano la pietra dell’acqua per manipolare gli elementi e richiamare la magia. Avevano un grande potere, ed erano capaci di proiettare delle immagini su delle larghe lastre di vetro azzurro. Erano i vetri delle visioni, e tutti li trovavano sublimi, e li contemplavano per ore ed ore, sognando ad occhi aperti.
La terra di Krystalos era così stupefacente e meravigliosa che chiunque la mirasse, dal vivo oppure attraverso le immagini proiettate dai vetri incantati, rimaneva estasiato e voleva assolutamente diventarne parte.
Ma le meraviglie di Krystalos potevano essere mantenute solo dall’utilizzo sfrenato dei cristalli del potere. La terra era generosa e ne offriva in grande quantità, ma Krystalos diventava col tempo sempre più grande e magnifica, e di conseguenza richiedeva sempre più magia.
Venne il tempo in cui i Cristalli non erano più sufficienti a soddisfare le necessità del paese. Tanti erano i divinatori che si adoperavano per far risplendere le grandi città. C’erano palazzi che s’innalzavano fino a toccare il cielo, tutti illuminati di mille colori. Di notte era uno spettacolo a vedersi.
Nella capitale sorgevano due alte torri di madreperla, e queste erano le più alte di tutta Liberzia. Erano il simbolo ed il vanto dei Krysni.
Ma i governatori del paese erano molto preoccupati, e non sapevano come far fronte all’esigenza di nuovi cristalli del potere. Si riunirono un giorno attorno alla grande roccia rossa, che era il luogo in cui venivano prese le decisioni, e cominciarono a discutere sul futuro di Krystalos. Ma per il paese non c’era nessun futuro, se non si risolveva il problema dei cristalli.
Allora qualcuno incominciò a parlare di un paese lontano che si chiamava Miralia, una terra che si trovava dall’altra parte di Liberzia e che era abitata da gente semplice e misera. Era una terra perlopiù desertica di cui si sapeva poco, ma quello che si sapeva di certo era che vi erano grotte molto profonde stracolme di cristalli. I Miraliani non sapevano utilizzare il potere delle pietre, ma erano molto fieri delle loro grotte. In passato alcuni divinatori si erano spinti fino a quelle terre desertiche per rifornirsi delle magiche pietre, ma quello strano popolo non voleva assolutamente che nessuno toccasse i loro giacimenti.
Allora i potenti di Krystalos parlarono per molto tempo di questa cosa, e qualcuno iniziò a rimanere infastidito dal fatto che tutti quei cristalli non fossero utilizzati. Qualcuno pensò che i Miraliani fossero gente stupida, o che non amassero le meraviglie del loro paese. D’altronde anche loro potevano vedere attraverso i vetri delle visioni, e rendersi conto di quanto incantevole fosse la loro terra. Un governatore disse che erano gelosi. Un altro disse che erano malvagi. Un altro ancora disse che erano figli di demoni.
Così, di comune accordo, i governatori di Krystalos decisero che il modo migliore per porre rimedio alle loro necessità era quello di fare guerra a Miralia, ed impossessarsi di tutti i suoi cristalli.
Ma certo questo non poteva essere fatto senza una nobile giustificazione. Gli altri popoli non avrebbero mai accettato che Krystalos, per quanto meravigliosa, decidesse di fare guerra ad un popolo per depredarlo.
Così i governatori continuarono a discutere attorno alla roccia rossa, che rappresentava la fede, la verità e la giustizia per tutti i Krysni.
Nessuno lo disse, ma molti lo suggerirono. Nessuno accettò la totale responsabilità del piano, ma tutti se ne presero un pezzettino, quel poco che le loro coscienze potevano sopportare.
In una notte di luna piena le due grandi torri di madreperla vennero giù, e le immagini del disastro vennero riprodotte in ogni vetro magico di Liberzia. Tutti i popoli videro le splendide costruzioni crollare, uno spettacolo stupefacente e raccapricciante al tempo stesso.
Poi le pietre mostrarono i governatori di Krystalos riuniti attorno alla pietra rossa. Qualcuno piangeva le vittime del disastro, qualcuno imprecava rabbioso, qualcun altro diceva che solo il potere concentrato di molti cristalli avrebbe permesso un evento del genere. Poi venne detto che una condensazione di potere tale esisteva, oltre che in Krystalos, solo in un altro paese; Miralia. E anche se era risaputo che i Miraliani non usavano il potere dei cristalli, si sapeva anche che essi non guardavano di buon occhio le meraviglie di Krystalos. Anzi, molti addirittura le odiavano.
I governatori continuarono a parlare per tutta la notte, mentre le pietre mostravano di continuo le immagini delle torri crollare. Alla fine, anche se nessuno lo disse chiaramente, tutti si convinsero che i Miraliani erano gli artefici di quel disastro.
Non ci fu più bisogno di convincere gli altri popoli. Tutti quanti appoggiarono la decisione dei governatori di Krystalos, che mandarono mille grandi divinatori ad affrontare l’esiguo esercito dei Miraliani. I divinatori distrussero città, uccisero uomini, donne e bambini, incendiarono le biblioteche e i luoghi di culto, spianandosi la strada verso le meravigliose caverne piene di cristalli.
E fu così che Krystalos ritrovò il suo splendore. Vennero costruiti nuovi palazzi e nuove torri di madreperla. I popoli seguitarono ad ammirare le meraviglie di Krystalos attraverso i vetri delle visioni, e i Krysni continuarono ad utilizzare le pietre del potere per far risplendere le loro opere.
La guerra con i Miraliani fu presto dimenticata, e anche la terra di Miralia fu cancellata dalle mappe. Il ricordo di quel misero popolo è rimasto in questa storia, che i governatori di Krystalos hanno prudentemente consegnato alle spire del tempo, nella speranza che non venga mai narrata.
Ma una storia è come un fiore. Se lo copri, fará di tutto per trovare la via della luce.
Perché il destino di ogni storia è quello di essere raccontata.

GM Willo 2008

giovedì 8 ottobre 2009

LA SCELTA

«Guerriero, tu che hai sconfitto demoni e vampiri, e hai cavalcato fino ai confini del mondo per bere dal calice della conoscenza… Tu, sarai capace di scegliere tra la vita di tuo figlio e quella di tua figlia…»
Il Mago sorrise, mentre giocava con il destino dell’eroe. Ma il vero eroe non si riconosce dalle sue imprese ma dalle sue scelte.
«Quella che tu mi offri, Mago, è una non-scelta. Per questo motivo non starò al tuo gioco. Uccidili entrambi… poi te li seguirai nell’ombra.»
La lama fuoriuscì dal fodero.
Due vite innocenti si spensero…
… e la battaglia ebbe inizio.

domenica 4 ottobre 2009

L’UOMO DEI PUZZLE


Dedicata a G.P.

C’era una volta un giocattolaio di nome Omorzo. Era un tipo così pignolo che ogni volta che gli arrivava un nuovo puzzle sentiva l’impellente necessità di controllare che avesse tutti i pezzi. Di giorno infatti lavorava al negozio mentre la notte faceva i suoi puzzle. Non dormiva mai, per questo motivo era infelice e aveva due enormi occhiaie.
Un giorno entrò un cliente per compare uno dei suoi puzzle, che avevano il bollino di controllo: “1000 pezzi sicuri!”
«Mi scusi, ma che significa questo bollino?» domandò.
«Che i miei sono puzzle certificati. Li ho controllati uno ad uno prima di metterli in vendita» rispose Omorzo.
«Mi vuol dire che ogni puzzle che ha in vendita è già stato fatto? Che a nessuno di questi manca un pezzo?»
«Esattamente!» concluse soddisfatto il giocattolaio.
«Allora mi spiace, ma non m’interessa…» rispose il cliente, incamminandosi verso l’uscita.
Omorzo naturalmente ci rimase male.
«Si fermi! È perché sono già stati usati? Mi spiace, ma è una cosa più forte di me. Non riesco a resistere. Non riesco a dormire. Appena mi arrivano in negozio devo mettermi subito a controllarli. Gli altri clienti sono sempre soddisfatti, perché almeno sono sicuri di avere tutti i pezzi…» Omorzo era molto dispiaciuto.
Il cliente, che era già alla porta, tornò sui suoi passi. Guardò il giocattolaio e sorrise.
«No, non è perché sono usati che non mi interessano.»
«E allora che cos’è?»
«È perché li ha privati del mistero, e il mistero è tutto nella vita.»
«Quale mistero?»
«Che a qualcuno potesse mancare un pezzo. Non è forse questa la principale ragione per la quale si fanno i puzzle?» Poi il cliente salutò e non si vide più.
Da quel giorno Omorzo ha smesso di controllare i puzzle.
Adesso conta i pezzi delle scatole del lego.

GM Willo 2009

martedì 29 settembre 2009

LA FORESTA VAMPIRA

Platani e querce secolari torreggiavano sopra la minuta figura di Mishan, cacciatore delle marche di ponente, ricordandogli le antiche leggende. La foresta era sempre stata lì, prima che l’uomo mettesse piede sul continente, prima che le navi lasciassero le sponde dell’Impero Caduto, e molto prima che le antiche guerre scoppiassero e gli uomini dimenticassero di essere stati tutti fratelli.
Se il tempo era nemico di ogni cosa viva, animali, piante e uomini, la foresta, che il suo popolo aveva sempre chiamato Uaki, il Grande Respiro, non sembrava venire scalfita dal deteriorante rintocco dei secoli. Eppure c’era qualcosa di strano in quel verde così rigoglioso e in quell’abbondanza di foglie, fiori e frutti. Mishan non aveva mai visitato i lidi di Uaki prima di allora, ma subito capì che l’ultima guerra, quella devastante venuta dal nord, era riuscita a trasformare anche quel luogo. Infatti, anche se le piante sembravano esplodere di vitalità, come fossero soggette ad una perenne primavera, nell’aria alitava un odore malsano. A Mishan fece pensare al fetore della decomposizione, il tipico tanfo dei sepolcri e dei luoghi dei morti. Quelle due così distanti sensazioni, vista e olfatto, percepite insieme, mettevano i brividi.
Mishan ricordò perché era giunto fino alla foresta. La mente andava distratta quando le paure più inspiegabili affioravano in superficie. Per due interi mesi aveva viaggiato attraverso le montagne del remoto occidente, terre di lupi e di orsi. Era il rituale ultimo che il suo popolo chiedeva a coloro i quali desideravano diventare Grandi Cacciatori. Mishan aveva affinato le sue tecniche di caccia e di sopravvivenza ed era finalmente pronto a ricevere l’investitura.
Ma la guerra era arrivata d’improvviso, una moltitudine di guerrieri corazzati e assetati di sangue proveniente dal grande nord. Nessuno si era capacitato del perché quei popoli solitamente pacifici, si erano uniti e avevano mosso guerra alle terre del sud. Qualcuno aveva già intessuto una leggenda al riguardo. Sembrava che una creatura millenaria, imprigionata nei remoti ghiacciai settentrionali, a causa delle alte temperature della passate estate, era stata liberata. In pochi giorni, richiamando un potere oscuro, la creatura aveva soggiogato le menti dei biondi e valorosi uomini del nord, per guidarli in una folle campagna di morte. Per questo motivo era stata chiamata la Guerra della Follia.
Tutto questo Mishan lo aveva saputo al suo ritorno, interrogando i pochi sopravvissuti che aveva incontrato lungo la strada. Il suo popolo era stato costretto ad abbandonare le sue terre e a salpare verso l’arcipelago di Matiki, nei mari del sud. Sconvolto da quelle notizie, Mishan aveva deciso di partire per le marche d’oriente, dove si diceva che la guerra avesse sterminato intere popolazioni.
Giunto ai confini della foresta, si era augurato di incontrare gli elfi, il popolo magico che da sempre abitava quei lidi. Non poteva credere che anche loro fossero stati spazzati via dalla furia dei popoli del nord. Ma inoltrandosi dentro Uaki, avvertì una spaventosa solitudine. Non solo non vi erano tracce degli elfi, ma anche gli animali della foresta parevano scomparsi. E proprio l’inusuale silenzio, rotto solo dal muoversi delle frasche al vento, era la terza strana sensazione che non poteva ignorare. Tutto ciò lo rendeva molto inquieto.
“Ma che fine avranno fatto i folli guerrieri del nord?” si chiese per l’ennesima volta. Nessuno lo sapeva. Sembrava che l’entità che si era liberata dal ghiaccio perenne, non avesse uno scopo di conquista. L’unico suo interesse era quello di distruggere. Mishan si era imbattuto in almeno due grandi campi di battaglia, disseminati da corpi putrefatti e armi incrostate di sangue, e non aveva visto neanche un vessillo. Era come se le armate del nord non fossero state mosse da alcun desiderio di occupazione.
Il sole si stava abbassando. Era una di quei tiepidi pomeriggi di fine estate, e le giornate di stavano rapidamente accorciando. Malgrado tutti i pensieri che gli vorticavano nella testa, Mishan non poté fare a meno di storcere il naso per via di quell’odore. E più s’inoltrava all’interno della foresta, più diventava insopportabile.
L’iniziazione lo aveva formato definitivamente. Un uomo né alto né robusto, ma in completo controllo di ogni centimetro del suo corpo. Vestiva le pelli dei lupi e degli orsi, ma erano solo ornamenti per i suoi muscoli, che affioravano nudi e lucidi in tutta la loro avvenenza. Portava un arco lungo legato dietro la schiena e un’accetta da battaglia, piccola e fatale, arma rituale del suo popolo. Gli occhi erano allenati a captare i movimenti più sottili e a prevedere gli inganni dei paesaggi uniformi. Sulla neve tutto può succedere…
Mishan si arrestò nel mezzo al sentiero. Nessun rumore, nessun movimento, solo una strana, stranissima sensazione. Qualcuno o qualcosa lo stava osservando. Aguzzò la vista, cercando tra i riverberi della rugiadosa vegetazione. Le piante non avevano occhi, ma potevano nascondere il tuo peggior nemico…
Non era uno solo. Sentiva che erano tanti, che erano troppi. Rimase immobile ascoltando il suo respiro, controllando la paura. Le nocche gli si sbiancarono mentre stringeva il manico dell’accetta. Ma non poteva sperare di farcela da solo. Aveva bisogno di pensare, di capire, di vedere…
Una creatura bianca e glabra dalla forma vagamente umana fuoriuscì dalla foresta e lentamente, con un movimento eretto ma in qualche modo strisciante, si avvicinò a lui. Mishan intuì che ve n’erano decine di simili creature dietro gli alberi dai quali era comparsa quella. Restò fermo ma il braccio era pronto a scattare.
L’essere aveva la corporatura di un bambino con gli arti leggermente più lunghi e sottili, mani anch’esse lunghe e affusolate, ed era completamente nudo, ma privo di un riferimento sessuale. Il volto era senza bocca e aveva due orifizi per naso. Gli occhi si distinguevano appena in quella maschera lattiginosa, mentre gli orecchi erano piccoli e a punta, proprio come si diceva fossero quelli degli elfi.
Silenziosa e cauta, la figura opalescente si mise ad osservare il cacciatore, girandogli intorno, avvicinando la faccia alle sue membra come se volesse annusarlo. Il rituale andò avanti per qualche minuto, mentre Mishan rimaneva immobile come un cobra davanti alla preda.
Poi l’essere indietreggiò, sempre col suo fare strisciante, tornò da dove era venuto ma non dette mai le spalle al cacciatore. Continuò a fissarlo camminando all’indietro come un gambero, per poi dileguarsi tra la vegetazione. Mishan lasciò passare qualche minuto e poi il suo sesto senso lo avvertì che le creature se n’erano andate, e non vi era più pericolo. Così riprese il cammino.
Il bizzarro incontro lo convinse che non sarebbe stata una buona idea rimanere nella foresta per la notte. Ma ormai le ombre della sera si stavano preparando a fare il loro ingresso sul mondo, e neanche correndo indietro con tutte le sue forze sarebbe mai riuscito ad uscire prima del tramonto. Ricordava però di un fiume, segnato sulle vecchie mappe del capo villaggio. Quando era bambino adorava perdersi tra le righe sottili di quei quadri ingialliti, che indicavano terre misteriose e lontane. Asekor era chiamato nella sua lingua, il grande fiume meridionale, che nascendo dai ghiacci perenni viaggiava per centinaia di miglia verso sud, tagliando in due la foresta, e riversandosi infine nel grande mare. Se fosse riuscito a raggiungere le sue sponde, avrebbe avuto una via di fuga, nel caso le creature fossero ricomparse. Mishan era un abile nuotatore, e aveva la sensazione che quegl’esseri bianchicci non amassero l’acqua.
Allungò il passo, mentre la luce da bianca diventava gialla e poi arancione. Il fetore continuava a tormentarlo, ma ad un certo punto diventò più sopportabile, gli alberi persero quel rigoglio così innaturale e con suo grande sollievo udì il cinguettare di alcuni uccelli. La foresta sembrava nuovamente viva, ma Mishan non riusciva a capire perché. Quando finalmente percepì l’inconfondibile odore del fiume, comprese la ragione di quella trasformazione. Vicino ad Asekor, la foresta era ancora quella di sempre.
Il sole si spense nel remoto occidente, ma nel riverbero vespertino Mishan alzò un riparo per la notte. Si piazzò sulla riva del grande fiume, che a quell’altezza raggiungeva un larghezza di almeno duecento metri. L’immensa massa d’acqua, alimentata dai recenti temporali estivi, procedeva lentamente trasportando rami e detriti. Il cacciatore consumò una cena fredda e cercò un sonno leggero, quello tipico dei lupi solitari, che non possono permettersi compagni di viaggio che montino la guardia. Al minimo rumore sarebbe scattato in piedi, pronto a colpire.
Ma c’era una cosa che Mishan ignorava. Il fiume era ancora più antico della foresta, e conservava un segreto che trascendeva il tempo stesso, o almeno il tempo nel modo in cui gli uomini lo percepiscono. Il sonno lo rapì come un bambino, e viaggiò nei mondi di lato, osservando il vero ed il falso, la realtà e il sogno. Si svegliò ma stava ancora dormendo, e credendosi desto incontrò il Re del Fiume.
La foresta era giovane e il fiume scorreva lento. Un mattino di sole abbagliante, la rugiada fresca e gli uccelli nel cielo. Mishan guardò la figura avvicinarsi, un vecchio dal volto gentile con lunghi capelli lisci e scuri. Si accomodò di fronte a lui e incominciò a narrare una storia, ma come succede spesso nei sogni, pur volendo domandare o ribattere Mishan non riuscì a farlo. Rimase immobile davanti al vecchio ad ascoltare.
“Hai fatto la cosa giusta a venire da me. Io stanotte potrò proteggerti, ma domani riparti subito e lasciati alle spalle la foresta, perché anche se può sembrarti splendida e rigogliosa, sappi che in realtà è già morta. Esistono cose che si credono vive in eterno, ma che in realtà altro non sono che accanimenti alla vita. Gli elfi hanno abitato questi lidi per millenni e hanno creduto che ci sarebbero rimasti per sempre. È pur vero che la percezione del tempo per il popolo della foresta è oltremodo dilatata, ma anche per loro esiste un inizio e una fine. Kratoa, l’essere che ha mosso guerra a tutte le terre del sud, è stato l’avvento della loro fine. Non esistono spiegazioni che un uomo possa facilmente accettare. La vita è ciclica. Esistono stagioni di nascita, come la primavera, e stagioni di morte, come l’inverno. Gli elfi credevano in un estate imperitura, e si sbagliavano. Ma hanno rifiutato di scegliere di lasciare queste terre per un nuovo mondo, e come conseguenza sono rimasti prigionieri di questo. Né vivi, né morti, in una foresta che si crede viva ma puzza di morte. Fuggi uomo, e racconta questa storia, perché la gente sappia che la foresta è diventata malvagia, e solo il grande fiume ne ricorda ancora lo splendore. Addio!”
Mishan si svegliò e finalmente comprese che stava sognando, eppure quel sogno era in qualche modo più vero degli altri. Raccolse le sue cose e seguì il consiglio del Re del Fiume. Tornò velocemente sui suoi passi e prima che il sole fosse alto già era in vista delle praterie oltre la cintura di alberi secolari che delimitavano Uaki.
Volse lo sguardo verso la foresta prima di riprendere il cammino e lasciarsela definitivamente alle spalle. Gli sembrò di vedere una figura lattiginosa attraversare il sentiero che aveva appena percorso. Un brivido gli corse lungo la schiena. “La foresta vampira” pensò.
E da allora la gente la chiamò così.

GM Willo - 2009

lunedì 28 settembre 2009

IL FOLLETTO

Nel riflesso di uno specchio, dentro a un gioco di un bambino, dimora un folletto birichino.
È il bambino che lo muove, oppure è il folletto che guida la sua mano?
Vi giuro, non c’è niente di strano!
Cose di questo tipo succedono dappertutto, trasformano il bello nel brutto, ma più spesso il brutto nel bello.
Ho visto il riflesso correre lungo il muro bianco, l’ho visto sparire nella finestra e ritornare di fianco. Il bimbo gli andava dietro, rideva rapito. Il folletto sul muro correva divertito.
Una nuvola!
«Babbo, dove è andato il folletto?»
«Era stanco. È andato a letto.»

venerdì 25 settembre 2009

SEBASTIAN E LA REGOLA DEGLI ESTREMI


I.

Sebastian, primo cercatore e adepto del Tempio della Legge, non avrebbe mai creduto che sarebbe finita così presto. La ricerca dell’assassino dell’abate, nelle buie foreste del Mondo Mentale, avrebbe potuto protrarsi per mesi. Invece non era stato così.
I Maghi della Mente al servizio del Tempio erano stati scaltri. Dopo poche ore dall’accaduto erano riusciti a catturare il presunto colpevole, imprigionandolo nel Globo di Cristallo. E Sebastian, che solcando i freddi pavimenti dei sotterranei del tempio si dirigeva verso la prigione magica, pensava che forse neanche la sua ferra disciplina l’avrebbe trattenuto dall’impulso di scagliarsi contro colui che aveva ucciso l’amato abate. Stringeva i pugni mentre continuava il suo sicuro cammino. Nella sua mente rivedeva ancora l’immagine del maestro, la sua veste azzurra macchiata di sangue, il pugnale sacrificale piantato nel petto. Davanti a quella visione il cercatore aveva scoperto di riuscire a odiare. Un odio profondo, che precede la freddezza di un’azione calcolata.

Aveva raggiunto la porta della prigione quando la sua mente formulò il pensiero più profano: l’avrebbe ucciso… Ma la sua mano non voleva aprire quel chiavistello, non poteva. Se avesse ascoltato la sua rabbia si sarebbe abbassato alla stregua di quell’assassino. Così cercò di calmarsi, e gli insegnamenti del culto tornarono utili. Schiuse i pugni ed aprì lentamente fa porta.
L’assassino fluttuava a mezz’aria nella piccola cella di pietra, imprigionato in una luminosa sfera di vetro magico. La visione della donna paralizzò il Cercatore.
“Come avrei potuto ucciderla?” pensò Sebastian, richiudendo la porta alle sue spalle. E non riuscendo ancora a distogliere gli occhi da quella figura, si convinse che non doveva esistere un’altra simile bellezza su quella terra. Addormentata nel Globo di Cristallo, la fanciulla risplendeva in una veste cremisi, e i suoi neri capelli le scendevano delicati lungo il suo corpo perfetto. Era la Luna e il Sole insieme. E se pochi istanti prima l’adepto avrebbe voluto uccidere l’artefice di quel terribile misfatto, ora provava quasi paura a destarlo da quel sonno incantato.
Ma lei si svegliò da sola, come rapita da un misterioso incubo. I suoi occhi, come il mare in una notte senza luna, fissarono l’ammutolito Sebastian. Lui cercava di decifrare quegl’occhi, mentre strane sensazioni gli attraversavano la schiena. Era il ritratto della primavera e dell’estate, ma perdendosi nel suo sguardo, un freddo intenso gli ghermì l’anima.
Un brivido scosse l’Adepto. Con molta prudenza riuscì ad avvicinarsi alla prigioniera e incominciò a parlare.
«Il mio nome è Sebastian e sono il primo Cercatore del Tempio. Sei stata condotta in questa cella e rinchiusa nel Globo di Cristallo, perché sei accusata dell’assassinio del nostro abate, e di essere inoltre cultrice di arti magiche proibite. La prigione di vetro magico, come tu sicuramente saprai, annulla ogni incantesimo e quindi non ti sarà assolutamente possibile fuggire da qui. Come rispondi a queste accuse?»
Passarono alcuni istanti in cui Sebastian, rimanendo in silenzio, mantenne lo sguardo sul pavimento di pietra. Non ottenendo risposta, temette che non fosse stato udito, che il Globo di Cristallo avesse deviato il suono della sua voce. Sapeva però che non poteva essere così.
Poi, improvvisamente, la prigioniera rispose. La sua voce era calda e lussuriosa.
«Il mio nome è Diamante…» esitò un secondo «…e sono colpevole di ciò che mi accusi.»
In Sebastian affiorò un nuovo impulso di violenza che riuscì a sopprimere sul nascere. Riprese la parola.
«Sappi allora che sarai presto condannata dal nuovo abate. Dovrò comunque interrogarti sull’accaduto, se me lo permetterai. Nel caso tu ci venga in aiuto, é possibile che la tua condanna sia più clemente.
«Riconosco dai tatuaggi sul braccio sinistro che fai parte dell’oscura congrega che segue il Culto dell’Ombra Chiusa, ed è molto probabile che tu abbia solamente eseguito gli ordini dei Nove Maestri delle Ombre.
«Non avendo agito di tua iniziativa personale, è probabile che il nuovo abate ti condanni solamente a una morte veloce, salvandoti così dall’Annullamento.» La voce di Sebastian tradiva il tumulto emozionale di cui l’Adepto era preda. Un morboso interesse per quella donna disturbava le sue idee. Diamante, così chiusa e intoccabile, risplendeva come un cristallo dalle infinite sfaccettature. Era la Luce e le Tenebre, e Sebastian pensò al primo insegnamento del Culto della Legge:

Gli Estremi si osservano l’un con l’altro da distanze infinite
Ma se volgono lo sguardo indietro si scoprono accanto

Il globo emanava una luce soffusa che illuminava debolmente la cella. Diamante guardò nuovamente l’adepto. La sua rosea bocca accennò un sorriso. Era un sorriso indefinibile, ma presto Sebastian ne avrebbe scoperto il significato.
La voce di Diamante vibrò nella stanza.
«Caro Sebastian, come credete di potermi usare! Voi, primitivi stregoni, falsi adoratori. Voi che siete sempre meno e sempre meno convinti! L’Ombra Chiusa? Cosa potete capire voi dei segreti dell’Ombra? I riflessi dei pensieri, la telecomunicazione, i rapporti mentali. Come sono vergognosamente “aperte” le vostre menti! Che pudore e’ mai il vostro! Non capisci che non potrete mai condannarmi. I vostri maghi dovranno sciogliere il globo per potermi colpire, ed io avrò tutto il tempo per fuggire nuovamente nel Mondo Mentale. E questa volta non sarà così facile prendermi. Mi basterà solo un gesto.» Rise con una voce che era come scintille e cascate.
«Tu vuoi che vi aiuti? Che sciocco!» concluse la donna, continuando a ridere.
Mentre ascoltava quel suono argentino, Sebastian rifletteva sulla prossima mossa da fare. Diamante apparteneva all’Ombra, ma vi era qualcosa in lei che non poteva essere corrotta come le sue idee. Sebastian lo sapeva. Una tale bellezza non poteva essere completamente “chiusa”.
«Se è così che la pensi, significa che rimarrai lì dentro, a goderti l’immortalità del globo.» Adesso anche l’Adepto sorrideva. Aveva accettato la sfida, ma la donna non sembrava minimamente turbata dalla sua affermazione.
«Non potete trattenermi qui dentro per l’eternità. Il globo è mantenuto da un’energia mentale esterna e continua. Non potete sottoporre i poteri dei vostri maghi ad uno sforzo simile per un tempo indefinito. Secondo i miei calcoli, considerando il numero degli utenti di magia che si trovano in questa Rocca e la qualità dei loro poteri, credo che non rimarrò qui dentro per un periodo maggiore di quindici cicli di Luna. Non è vero Sebastian?»
Aveva ragione. Il Globo di Cristallo che annullava la magia, non poteva essere trattenuto in eterno. Sarebbe stato una perdita di tempo e di poteri. I suoi calcoli erano giusti.
Sebastian non sapeva cos’altro dire. Pensò che lei, perfida e magnifica, poteva essere amata ed odiata. Desiderava ucciderla e possederla. E mentre i suoi pensieri s’intrecciavano, pensò nuovamente alla prima regola del Culto. Doveva riflettere.
Fu con un gesto elaborato che Sebastian scomparve dalla cella, lasciando la prigioniera fluttuare nell’aria.

II

Sapeva di non potere dormire e difatti non ci provò neanche. Perso nelle sue riflessioni, Sebastian sprofondava lentamente nell’oceano degli enigmi. Pensava ai due Estremi; il Tempio della Legge e l’Ombra Chiusa. Potevano essere così vicini?
Lui era il primo Cercatore e solo il nuovo Abate aveva un potere superiore al suo. Lui doveva decidere. Ma la sua mente era in preda al caos.
Nel freddo della sua stanza, guardava la luce candele sul tavolo, cercando una risposta che non si trovava certo lì. Non sapeva se quello che Diamante gli aveva detto era la verità. Forse non sarebbe riuscita a fuggire prima di essere punita; prima di essere “annullata”. Poi, con grande orrore, scoprì che questo a lui non importava. Non riusciva ad ammettere a se stesso il suo desiderio.
Lui la voleva. L’avrebbe amata oppure uccisa. Non lo sapeva ancora, ma era certo che lui la voleva. E prima di aver deciso di voler tornare nella cella della prigioniera, l’adepto era già là.
Non ricordava se ci fosse arrivato per il potere del teletrasporto o attraversando i freddi corridoi del tempio. Non importava. Ciò che importava adesso era che lui era lì con lei, amabilmente addormentata.
Osservandola immaginò mille cose. Mille morti. Mille amori. Mille estremi.
Lei aprì gli occhi su di lui.
«Buongiorno» salutò lui con freddezza.
Lei lo guardò con distacco. Quello sguardo avrebbe potuto imprigionare qualsiasi animo, pensò Sebastian.
«Hai deciso di liberarmi, primo Adepto?» domandò lei con voce suadente.
Lui si avvicinò al globo. «No» rispose.
«Cosa farai allora? Aspetterai ancora qualche giorno per poter godere della mia bellezza?» lo derise lei.
«No» disse lui. «Ho deciso di entrare nel globo.»
La sua affermazione ebbe un effetto imprevisto sui pensieri di lei. Il suo sorriso svanì. I suoi occhi divennero freddi e infiniti. Poi una risata tenebrosa e sensuale percorse il silenzio.
«Hai deciso di trovare l’oblio» affermò Diamante ridendo ancor più forte. «Mi divertirò molto…» e la risata continuò a riecheggiare nei bui corridoi.

III

Tutto era pronto. I tre maghi che sostenevano il globo si trovavano attorno a Diamante, concentrati su Sebastian, che passo dopo passo si avvicinava a lei. Improvvisamente una porta argentea si materializzò sulla parete di cristallo. I maghi formulavano strani incantamenti. La porta si aprì leggermente e Sebastian varcò la soglia. Era davanti a lei.
E la porta si chiuse dietro di lui.

IV

Dopo che i maghi si furono allontanati su ordine del primo cercatore, i due rimasero nuovamente soli nella cella. La luce soffusa del globo illuminava i lineamenti dei due volti. Quello di lei; perfetto, misterioso e provocante. Quello di lui, risoluto ed insicuro al tempo stesso.
«Cosa vuoi fare adesso, Sebastian?» chiese lei squadrandolo con uno sguardo abissale. Ma lui non rispose. Era convinto che quello che stava facendo era bello e terribile. Era giusto ed ingiusto. Era vero e falso. Era bene e male. Erano i due estremi.
Si avvicinò a lei, e lei non si mosse. La prese tra le braccia con forza e delicatezza. Lei lo accolse senza dire una parola. Lui la spogliò della sua veste cremisi e lei fece lo stesso con lui. Erano avvinghiati come in una lotta. Nudi ed uniti l’uno con l’altra. E la luce e le tenebre divamparono dentro di loro, soffocando le loro menti.
Lui entrò in lei e lei entrò in lui, ed era quello che desideravano entrambi. Ma non era tutto. Le mani di lei che prima cercavano la passione, adesso cercavano qualcos’altro. Con una forza incredibile le dita di Diamante si strinsero attorno al collo dell’adepto, e Sebastian, travolto dalla passione e dall’odio, incontrò la gola di lei. Erano avvinghiati in una stretta fatale. Erano l’amore e la morte. Gli estremi che volgono il loro sguardo e si scoprono accanto.
Le strette si rafforzarono. Un gemito vibrò dalla bocca di entrambi, e all’apice dell’amore e del dolore tutto finì.
Il Globo andò in frantumi lasciando cadere a terra due corpi senza vita. Due estremità unite per sempre nella notte senza ritorno.

GM Willo 1995

martedì 22 settembre 2009

LA TORRE CHE DANZA NELLO SPAZIO E NEL TEMPO



Quel che rimaneva del crepuscolo andava perdendosi ad ovest, là dove il mare e le spiagge di Trygold si univano al margine di una striscia di terra sabbiosa. Rey-Hawk, dall’alto della scogliera a ridosso della costa, guardava dall’altra parte, una sporgenza di roccia bianca velata da una fitta nebbia color del vespro. Lassù presto sarebbe apparsa la sua meta. Aveva viaggiato molti mesi e cercato a lungo, ed infine era giunto fino alle sconfinate regioni settentrionali del Continente, fredde lande desolate dove i mari erano sempre inquieti, e gli uomini che le abitavano avevano un carattere scontroso ma fiero. In alto Aways, la luna azzurra, e Demhos, la luna rossa, gettavano lo sguardo su di lui e i suoi tre compagni di viaggio. Kya, la luna gialla, doveva ancora sorgere. Rey-Hawk, con la sua voce grave ma gentile, si rivolse agli altri.
«Dopo tanta fatica, credo che sia arrivato il momento di riposare. Il tempo prestabilito non è ancora giunto.» Detto ciò, posò a terra la sua sperana, il lungo bastone da Stregone-Guerriero munito di una corta e dura lama ricurva. Poi si accomodò in posizione di rilassamento, secondo le tecniche rituali della sua scuola. Lasciò che il vento gli scompigliasse i lunghi capelli grigi e gli accarezzasse i folti baffi. A occhi chiusi incominciò a cantare sottovoce un’ancestrale litania.
Gli altri, ormai abituati all’incantesimo di protezione che il capo del gruppo eseguiva ad ogni sosta, prepararono l’accampamento. Gereen, abile cacciatore delle terre dell’ovest, si avviò verso il vicino boschetto con la balestra in pugno. Aveva occhi buoni per cacciare anche nelle buie ore della sera, quando le ombre si fanno ingannatrici. Stepeleo il mezzo-goblin si occupò del fuoco. Quando la lingua di fiamma incominciò a danzare, i suoi occhi rossi luccicarono malignamente. Quella piccola creatura bastarda, al soldo dello Stregone, si era rivelata un buon servitore ed un ottimo scout. Poi vi era Oceana, adepta delle Sacerdotesse di Demhos, la luna rossa. Bellissimi erano i lineamenti del suo volto, nel quale dimoravano due occhi lunghi e penetranti. La sua pelle color del bronzo era cosparsa di curiosi tatuaggi, che rilucevano alla luce della luna. Lei preparò le vettovaglie, e benedisse il vino che versò in quattro coppe di bronzo.
Gereen tornò con dei conigli che il mezzo-goblin arrostì sul fuoco. Poi mangiarono e bevvero il vino benedetto, che addolciva la mente e rinvigoriva il corpo. Rey-Hawk si era fatto pensieroso e taciturno, mentre gli altri parlavano tra loro di leggende e vecchie storie, scherzando a volte per alleggerire l’atmosfera. Tutti quanti sapevano che, dietro un velo di nebbia sfuggente, uno strano destino li attendeva.

LA PENTOLA, IL GUFO E LA SORGENTE

Il gufo guardava la luna. Ogni notte la stessa cosa. Lui le chiedeva di venir giù, ma lei era timida, e si nascondeva dietro le nuvole. Allora il gufo imprecava disperato. L’amore è una brutta malattia.
Un giorno capitò uno straniero. Si assopì proprio sotto l’albero in cui dormiva il gufo. Il gufo si svegliò come al solito, dopo il tramonto, e si accorse di questo viandante, un tipo vestito di stracci e con un cappello a tesa larga.
- Lei cosa ci fa qui? – gli chiese, sporgendosi dal buco nel tronco che era l’ingresso della sua umile dimora.
- Cerco la sorgente… – rispose lo straniero, alzandosi e togliendosi il cappello.
- La sorgente del tempo? – chiese il gufo, che la sapeva lunga.
- Si. Ho barattato una pentola d’oro per sapere dove si trova. Spero di non essere stato ingannato – disse preoccupato il viandante.
Il gufo lo guardò con i suoi occhi giallissimi. Ormai era buio, e presto sarebbe dovuto uscire per cacciare. Ma quell’uomo lo incuriosiva. Un altro sognatore alla ricerca della mitica sorgente. Come se si potesse seguire semplicemente un sentiero per arrivarvi. La sorgente del tempo….
- No, al contrario. È sulla strada giusta. Ma permettetemi una domanda ancora. -
- Prego, signor Gufo. -
- Lei mi sembra un giovane in gamba. Come posso spiegare… Mi piace il suo cappello, ecco qua! Comunque, un tipo in gamba con un cappello come il suo perché dovrebbe barattare una pentola d’oro per sapere dove si trova la sorgente del tempo? –
- Beh, tutti vogliono sapere dove si trova la sorgente, no? -
- Appunto. E crede che una pentola d’oro possa bastare? -
Allo straniero sfuggì un mezzo sorriso. Il gufo si augurò che avesse capito. Poi si alzò in volo, scomparendo nel cielo scuro. La caccia iniziava…
Con l’oro non si compra la conoscenza. Al massimo si può rimediare una botte di vino, che non è male.
Lo straniero tornò a casa, deluso ma non affranto.
Il gufo invece tornò a guardare la luna.
- Dai, vieni giù! -
- Non posso, ho da fare…-
Che rizzacazzi, pensò.

GM Willo 2008

lunedì 21 settembre 2009

IL RISVEGLIO PIÚ DOLOROSO

«Questa non me la doveva fare!»
«Dai, non ti scaldare. Andiamo a farci un giro…»
«Eh, no, adesso me la paga!»
La chat-bath era schermata. Vi galleggiavano soltanto le diramazioni di Alex666 e HBTomahawk. Vibravano d’intensità variabili, alterate entrambe da droghe sintetiche e digitali. Bolle di sapone affioravano in superficie, esplodendo con un curioso “ploff”. Erano i banner di ultima generazione.
«Adesso gli entro nel deck e le friggo la fica!»
«Che cazzo dici! Dai, facciamo un salto al Volcano. Stasera deve esserci roba nuova.»
«Laggiù ci vanno gli stronzi, non lo sai. È pieno di spider, e le bambole che lo frequentano non sono altro che dei surrogati di fica, cosa credi? Vacci tu se vuoi, io preferisco farmi una sega…»
Alex666 aveva in circolo del God’s Opium mischiato a degli amplificatori di personalità. La sua ragazza gli aveva appena dato buca. Lui ci sapeva fare con le connessioni, conosceva le fognature della rete, poteva spiare attraverso le pareti, codificare i segnali in entrata, seguire le piste. L’aveva beccata a succhiare l’uccello di un professore. Il professor Crane del corso di lettere, per quanto poteva valere un corso di lettere, in una scuola allo sbando come la sua. A lui ci avrebbe pensato domani a rovinargli la carriera. Adesso voleva saldare i conti con lei… la stronza.
«Quel sudicio avrà almeno sessant’anni!»
«Ma che te ne frega! È solamente sesso teorico. Quei due non si sono neanche toccati. Davvero, non ti capisco!»
«Certo che non mi capisci. Perché sei uno stronzo come lei. Che differenza fa se lo fai su un letto oppure attaccato alla spina del tuo dannato processore. Lo fai, punto. La stronza ed io stavamo insieme, lo capisci questo? Lo capisci?»
«Ok, va bene! Ho capito. Che cosa vuoi allora?»
«Voglio uno di quei giocattoli»
«Cosa?»
«Un cazzo di occhiello, lo sai di cosa parlo!»
«Ma tu sei fuori!»
Gli occhielli erano dei gingilli proibiti. Li usavano le squadre governative per sedare gli animi in rete. Te ne agganciavano uno all’avatar ed eri finito. Causano la perdita permanente delle capacità induttive per la connessione. Il cervello non riesce più a riconoscere gli impulsi del deck. Hai finito di viaggiare fratello!
«Te ne è rimasto qualcuno, lo so!»
«Ascolta, quella roba è pericolosa. Se qualcuno riuscisse ad isolarlo potrebbe incastrarti. E poi risalirebbero a me. Ci sbattano dentro, amico, e ci strappano pure gli innesti. E a me non mi va di correre un rischio del genere!»
«Aspetta che carico la chat-bath di Amanda…»
«Che cazzo dici?»
«Il tuo fiorellino… ho da dirle un paio di cose. Le tue amichette del Volcano, ad esempio. Com’è che si chiamano? Samantha? Donna?»
«Non lo faresti…»
«Oh, certo che lo farei…»
«Stronzo!»
«Eh già!»
Una manciata di frame più tardi Alex666 viaggiava veloce nei corridoi alternativi della matrice. Schermava l’occhiello con un programmino di sua invenzione, lo specchio magico lo chiamava. Se qualcuno avesse provato a intercettare la sua proiezione, si sarebbe ritrovato davanti i propri codici d’accesso, che rivelavano l’identità dell’user. Avrebbe pensato ad un banale errore di sistema e avrebbe lasciato perdere la ricerca. Facile come cagare in piedi, si disse.
La stronza era ancora dentro. E chi la moveva quella. Fuori non c’era più nulla ormai. La grande recessione aveva trasformato il paese. Nelle strade si trovava solo desolazione, povertà, disperazione. Locali, negozi, centri commerciali. Tutto abbandonato. Tutto sbarrato. Per procurarsi da mangiare dovevi andare a fare la fila agli empori allestiti dal governo. Fuori era una merda, ecco cos’era.
E allora se volevi un po’ di svago dovevi trovartelo in rete. Le notti si passavano così a quei tempi, e sempre più spesso anche i giorni. La disoccupazione toccava livelli mai registrati prima. La violenza nelle strade era aumentata, insieme al disagio e alla sporcizia. No, era meglio starsene nella propria cameretta, a dormire il cybersonno.
Si stava rifacendo il trucco. Era pronta a riuscire, a succhiare qualche altro cazzo, pensò Alex666. Niente di male a farsi un videogioco. Quelli li usavano tutti, l’evoluzione della pornografia, un vero toccasana per le relazioni di coppia. Ma il sesso in rete tra due proiezioni non era molto diverso da quello reale. Anzi, poteva essere qualcosa di molto più intimo. Spesso gli avatar erano delle rappresentazioni più nude, più compiacenti, più aperte a nuove esperienze, e di conseguenza, paradosso dei paradossi, più vere. Ed Alex666 questo lo sapeva bene. Le avrebbe fatto passare la voglia, a quella troia!
Fece il suo ingresso nella private-room come una manifestazione paranormale, uno spettro del cyberspazio. Lei sussultò e gli sfuggì di mano il mascara. Acquistò lentamente consistenza, alto, longilineo, vestito di pelle nera. Un ciuffo gli ricadeva sugli occhi. Le mani sprofondate nelle tasche della giacchetta di pelle. Dentro una di quella vi era l’occhiello.
«Puttana!»
«Che cazzo vuoi?»
«Sei una puttana! Il professor Crane… quel vecchio bavoso!»
«Ma cosa dici? Ma sei fatto?»
«Ti ho vista nella chat-bath di Oregon, quel cazzo di social network per sfigati. Lui sul divano di velluto, te in ginocchio davanti a lui. E quella dannata musichina in sottofondo…»
Gli occhi di lei non potevano più nascondere il senso di colpa. Abbassò lo sguardo, ma lo rialzò immediatamente. La rabbia aveva preso il posto del dispiacere.
«Vaffanculo!»
Lui ci rimase male. Aveva creduto che si sarebbe messa a gridare, a disperare, a negare l’evidenza, forse addirittura a supplicarlo di non lasciarla. Invece lo aveva mandato a fanculo. No, questo era davvero troppo…
Le afferrò la mano. Lei reagì. Lui teneva l’occhiello in alto, una sottile fede d’argento dall’aspetto innocuo. Era pronto a mettergliela al dito, a tagliarli gli accessi, a confinarla per sempre nel mondo di fuori, quello vero, quello ormai perduto.
Un calcio nelle palle. Un banale calcio nelle palle. Perché un calcio nelle palle fa sempre male, sia fuori che dentro. Alex666, piegato in due dal dolore, si lasciò sfuggire l’anello. La stronza fu lesta ad afferrarlo e a metterglielo al dito. Il sogno svanì nel tempo di un click. Alex (solamente Alex) aprì gli occhi sul soffitto di camera sua. L’intonaco crepato, la serranda della finestra divelta, le cianfrusaglie in fondo al letto, la spia del deck accesa. Il più doloroso dei risvegli. La sua nuova realtà.
Alex realizzò tutto questo in una frazione di secondo. Udì i suoi genitori litigare nella stanza attigua. Nelle strade, dodici piani più in basso, gli arrivava il silenzio di un mondo in rovina. L’unico mondo possibile rimastogli.
Non ci pensò un secondo di più. E saltò.

GM Willo 2008

domenica 20 settembre 2009

L'ALBERO DI PERE

Il ruscello divideva il bosco. Sul lato ovest viveva l’orco Nando, su quello est suo cugino Lando. Ma l’albero di pere (le più succose di tutto il paese) vi cresceva proprio nel mezzo. Le radici affondavano da una parte, il tronco pendeva sul ruscello e le fronde piene di frutti ricadevano sull’altra sponda. Poiché i due orchi erano parenti non potevano farsi guerra, ed ignorando la matematica, non erano in grado di dividersi le pere. Perciò le guardavano marcire, e per sfogarsi terrorizzavano il paese.
Un dì venne un castoro col mal di denti che, abbattendo il pero, salvò il mondo.

GM Willo 2008 per 101 Parole

venerdì 18 settembre 2009

LA PIOGGIA DI STELLE

La luna era stata letta. Non lasciava molte speranze.
I Sarti rammendarono i palloni aerostatici. Tre grandissimi: uno giallo, uno verde ed uno rosso. Il primo si chiamava Linandir, il secondo Oussa e il terzo, cremisi come i tramonti delle spiagge di Boxala, Yuldra. Ogni cesta poteva ospitare dieci guerrieri. Trenta di loro non sarebbero bastati.
Ma il giorno moriva e le stelle si preparavano a cadere. Laggiù dove il mondo finisce, per dare modo ad altri mondi di nascere, la pioggia di luce si sarebbe riversata sulla terra. Inondando le valli ed i campi, avrebbe investito la città di Aviessa e i suo mille abitanti. Donne, bambini e cuccioli di drago. La dinastia millenaria spazzata via in pochi attimi. Forse un destino indolore…
Ma Imassan non si dava per vinto. Avrebbe guidato i suoi trenta guerrieri a bordo dei palloni, raggiunto le alte vette di Arsavia, affrontato la tormenta e dispiegato il suo potente ombrello. Trenta ombrelli incantati contro la pioggia di stelle.
In un sogno lontano un bambino aprì gli occhi. Anche lui sapeva della tempesta. Anche lui era a conoscenza della minaccia che incombeva sulle piccole lucertole. Un mondo senza draghi. Migliaia di storie perdute. Milioni di bambini senza storie.
Il tuono brontolava. La pioggia sarebbe arrivata, ma non era una tempesta come le altre. Mentre sua madre lo accompagnava a scuola, vide le bianche saette trafiggere il cielo, e si ricordò del sogno.
Scese dall’auto ed afferrò il grande ombrello verde dimenticato nel portabagagli. Sua madre lo guardò incuriosita, ma poi alzò lo sguardo al cielo e disse: «Prendilo si. Potrebbe servirti.»
“Sicuramente”, pensò il bambino.
Corse verso un grande edificio di mattoni rossi. Le prime gocce stavano già cadendo. Sperava che i guerrieri, guidati da Imassan, avessero già raggiunto le vette. Vide alcuni compagni di classe nel piazzale davanti all’entrata. Gli urlò: «Ragazzi, venite con me.»
Gli altri lo conoscevano bene. Conoscevano i suoi occhi, la sua determinazione, il suo spirito. Non gli chiesero niente ma, armati anche loro di ombrello, lo seguirono. Dietro la scuola c’era il parco giochi. Tra uno scivolo, un altalena ed un tavolo da ping pong, otto ragazzi si riunirono in cerchio. Il bambino con l’ombrello verde parlò.
«Ho sognato la città di Aviessa.»
Gli altri mormorarono, increduli e nervosi.
«Non abbiamo molto tempo. Le mongolfiere devono aver già raggiunto le montagne. Trenta guerrieri cercheranno di ripararsi dalla pioggia di stelle. Aspettano solo il segnale del loro capo. Dobbiamo aiutarli.»
Allora gli otto ragazzi afferrarono i loro ombrelli, pronti a muoversi al comando di colui che aveva parlato. La pioggia cadeva più fitta. Le saette continuavano ad esplodere nel cielo.
In un altro sogno le stelle incominciarono a cadere. Un uomo molto alto e con gli occhi di zaffiro, urlò il suo comando. Trenta guerrieri aprirono insieme i loro ombrelli incantati. Non sarebbero mai bastati se quel bambino non avesse udito la chiamata. I ragazzi nel parco giochi dietro la scuola aprirono a loro volta gli ombrelli.
La pioggia di stelle cadde. Poeti e innamorati la osservarono estasiati, del tutto ignari del segreto che nascondeva. La maggior parte degli uomini non bada a fenomeni di questo tipo, eppure la natura ci parla ogni giorno attraverso eventi del genere.
Gli ombrelli dispiegati nei due mondi, distanti nello spazio ma vicini nel sogno, salvarono Aviessa, la città degli allevatori di draghi. E salve furono così anche tutte le storie dei bambini in cui essi dimoreranno.

Aeribella Lastelle - 2008

giovedì 17 settembre 2009

IL TEMPIO SULLA MONTAGNA

Si fa chiamare Hal Roghaster, in onore al suo dio. Un corpo gracile, minuto, avvolto da una pesante tunica color porpora. Rune verdi e nere la adornano, preghiere in una lingua antica, codici proibiti che evocano le urla dei dannati. Hal Roghaster si aggrappa al suo bastone, alza il volto, due occhi giovani che hanno già visto l’inferno, le labbra serrate in un ghigno folle e risoluto al tempo stesso. È giunto alle rovine dell’antico tempio. È pronto a raccattare l’eredità dei sacerdoti maledetti.
Esiste un potere più forte di quello della conoscenza. Lui sa di essere ancora un adepto, ma c’è qualcosa che alberga in lui, qualcosa di magnificente ed oscuro. Neanche il grande patriarca della sua chiesa, con tutta la sua influenza, sarebbe in grado di offrire un dono simile. Nell’anima di ogni uomo si nasconde il retaggio delle stelle, un patrimonio incomprensibile ai più, le verità che trascendono il tempo e lo spazio. Lassù, negli angoli d’ombra del cosmo, dove dimorano gli dei primordiali, si assapora l’idea di un nuovo universo. Fuoco e oscurità…
Il tempio era sorto mille anni prima, tra le rocce affilate delle montagne del nord. Nei secoli il culto si era trasformato, adeguandosi alle necessità degli alti sacerdoti. Tutto iniziò il giorno in cui un prete, più interessato alla sua influenza sul mondo che al senso del grande disegno, lasciò il tempio sulla montagna. Scese a valle e fondò la Grande Chiesa. Riunì molti discepoli e divenne oltremodo potente. Ma nel frattempo il significato del culto si era modellato attorno alla comunità. Il tempio sulla montagna, che conservava il credo unico, scolpito nella Tavola della Parola dallo stesso dio, diventò agli occhi della gente un luogo di menzogna ed eresia. L’arcivescovo della nuova chiesa guidò personalmente un manipolo di fedeli invasati a distruggere il tempio.
Da quel giorno di morte e distruzione nessuno é più tornato sul sentiero che fende la roccia. Nessuno più conosce questa storia. Ma Hal Roghaster, tra gli antichi manoscritti nella biblioteca della cattedrale, aveva recuperato la pergamena di un monaco che ricordava la storia del tempio.
Sono passati quattro secoli da quello scempio. Le rovine spuntano ancora tra gli arbusti secchi, che faticano a crescere in quel luogo aspro. Nel cielo grigio, promettente tempesta, borbotta il tuono. L’adepto alza gli occhi e sussurra una breve preghiera. Ringrazia il suo dio, per averlo assistito, per avergli infuso coraggio, per avergli mostrato la strada. Adesso spetta a lui il resto.
Muove passi attenti sulle rocce scoscese ed umide. Gli angoli della tunica svolazzano al vento che si è appena alzato, quello della tempesta in arrivo. Hal Roghaster sa di dover fare in fretta.
Il richiamo è una melodia arcana, ripetitiva ed oscura, suonato con un flauto scordato, o soggetto a nuove bizzarre scale musicali. Lo sente nel ventre, muoversi come una vipera. È il richiamo dell’antica pietra, rimasta prigioniera delle macerie del tempio per oltre quattro secoli. Da quell’artefatto era nato il culto, con quell’oggetto sarebbe rinato. Prima avrebbe richiamato a se nuovi seguaci, animi puri, pronti ad incontrare gli oscuri angoli del cosmo. Poi insieme a loro avrebbe ribaltato la nuova chiesa, ormai corrotta fino alle sue fondamenta. Un nuovo grande tempio sarebbe sorto, un giorno. Hal Roghaster inizia a scavare alacremente, mentre immagina il ritorno dell’antico tempio. Sa che la pietra è sotto un metro abbondante di roccia. Glielo ha appena sussurrato il suo dio.
Mani gracili da bibliotecario afferrano, estraggono, sollevano sporcandosi di terra, graffiandosi, unghie rotte e palmi lacerati, l’adepto continua a scavare. Cadono le prime gocce, il tuono urla ma lui non ci bada e va avanti. È l’invasione dell’oscurità cosmica, un fiotto di energia vitale che gli corre attraverso le membra.
“Eccola” esulta il chierico. La pietra emana una strana luminosità, fin troppo evidente nella semioscurità di quel plumbeo paesaggio. Una tegola larga appena due palmi, su cui risaltano incisi bizzarri simboli di cobalto. Le parole del dio…
Ma i brontolii del tuono hanno nascosto gli ululai in avvicinamento. Hal Roghaster si erge nel mezzo delle rovine. La pioggia si fa insistente. Getta lo sguardo oltre le rocce alla sua destra e intravede cinque paia di occhi che lo puntano. Lupi delle montagne, affamati, letali come l’ascia di un orco.
Il primo si avventa su di lui senza neanche lasciargli il tempo di un respiro. L’adepto non è un combattente esperto, ma ruota tempestivamente il bastone davanti alla bestia famelica. L’estremità della staffa termina a testa di martello, metallo freddo e duro che si schianta con precisione sul cranio dell’animale. Il lupo crolla ai suoi piedi, ma subito un altro gli si getta addosso. Anche questa volta il chierico si dimostra più agile di quello che è in realtà. Mera fortuna o mano divina? La bestia scivola sulle rocce bagnate, il bastone-martello cala impietosamente sul grugno bavoso. Si ode un distinto “crac”, poi anche quello si accascia inanime.
Rimangono tre lupi, ma hanno visto abbastanza. Ululano alla luna nascosta dal cielo violaceo, poi tornano sui loro passi, perdendosi tra le rocce della montagna e la pioggia che batte più forte.
Hal Roghaster stringe tra le mani la pietra sacra. La tempesta incalza, ma adesso non ci pensa. Troverà una grotta in cui ripararsi, sul sentiero che scende verso la città. Il nuovo corso è appena incominciato. Lo aspettano molte notti da passare all’agghiaccio. La via del profeta è lunga e sinuosa, ma conduce molto più lontano di qualsiasi altra. Forse fino alle profondità del cosmo.
Nel cielo il tuono continua la sua canzone. I lupi ululano ormai distanti. Un uomo gracile, avvolto in una tunica purpurea, muove i primi passi verso un destino di fuoco e oscurità.

GM Willo - 2009

mercoledì 16 settembre 2009

L'ERRORE

«Abbiamo perso anche Merial» disse il guaritore all’allievo, lo sguardo perduto oltre l’oblò. Il ragazzo aveva gli occhi illuminati dalle esplosioni che si ripetevano in sequenza sulla superficie del pianeta.
«Dov’è diretta la nave, maestro?»
«Oujes, il settimo mondo. Oltre quello ci aspetta l’infinito.»
«Il Sole Nero arriverà anche laggiù?»
«Si. Non si fermerà.»
I Guaritori rimasero in silenzio, in bilico tra paura e rassegnazione. Il ronzio dei motori vibrava distante. Il resto dell’equipaggio non si muoveva dalla cabina di comando. Erano soli.
«Cos’è il Sole Nero?» domandò infine il ragazzo.
Il maestro gli regalò un sorriso amaro.
«Un errore» rispose.

GM Willo per 101 Parole - 2008

martedì 15 settembre 2009

I VEGGENTI DEL NUOVO MONDO

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Il collasso del mondo non avvenne dal giorno alla notte, come molti si aspettavano. Accadde lentamente, attraverso gli anni e le generazioni.
Fu come un complicato meccanismo, messo in moto da molteplici fattori; lo scontro tra religioni, l’esaurimento delle risorse energetiche, lo scioglimento dei ghiacciai, il divario tra i ricchi e i poveri e soprattutto l’odio e l’ignoranza accumulata nei secoli.
Giunto al punto di non ritorno, l’uomo decise di farla finita e di premere i pulsanti del suo destino.
Le distruzioni apocalittiche, derivate dall’utilizzo di ogni ordigno disponibile, oltre ad eliminare la maggior parte della popolazione terrestre, innalzarono ulteriormente la temperatura della superficie del pianeta, provocando lo scioglimento dei più grandi ghiacciai.
Le grandi metropoli, già distrutte dalle bombe, vennero sepolte dagli oceani che alzarono il loro livello di parecchi metri.
L’uomo venne spazzato via e la sua cultura moderna s’inabissò con lui.
Pochi sopravvissero, protetti dalle montagne, nascosti alla furia degli eventi.
Ci vollero anni prima che qualche comunità di uomini si riorganizzasse in uno stralcio di società. Piccole tribù, tornate a coltivare la terra e allevare animali, ben intenzionate a rimanere nel loro piccolo guscio e a non ricercare testimonianze della passata catastrofe.
Passarono gli anni e le generazioni, e le storie divennero mito. Il nuovo uomo non voleva sapere da dove proveniva, e rimaneva ben nascosto nelle verdi valli del nuovo mondo, lontano dalle rovine di quello vecchio. E questo era ciò che volevano anche i Veggenti.
I Veggenti erano una comunità di oscuri studiosi, conservatori dell’antica storia del mondo. Alcuni uomini percepirono l’imminente catastrofe, ma non volevano che la cultura dell’umanità si perdesse insieme al resto. Credevano che la testimonianza della loro storia e dei loro sbagli poteva essere la più importante eredità da lasciare ad una nuova possibile umanità. Un eredità necessaria per evitare un’altra futura catastrofe.
All’apice della conoscenza tecnologica, gli uomini potevano conservare in piccoli contenitori milioni di informazioni. Le memorie digitali erano dei veri e propri universi virtuali da esplorare. Le biotecnologie avevano cambiato il livello percettivo degli uomini che sondavano questi supporti. Se infatti un tempo erano dei dispositivi esterni che leggevano quelle memorie, riproducendole poi su uno schermo, si arrivò successivamente a leggerle con la propria mente, attraverso degli amplificatori percettivi inseriti nel cervello. Questo rivoluzionario sistema di lettura del digitale cambiò profondamente la percezione del virtuale. Si parlava di lettura mentale del virtuale.
Alcuni uomini, vissuti per anni leggendo memorie, acquisirono la capacità di entrare dentro queste anche a grandi distanze, e le generazioni a loro seguenti, per un bizzarro mutamento genetico, avevano l’innata capacità di poterle sondare senza alcun intervento al cervello.
Coloro che decisero di preservare la storia del vecchio mondo capirono che per farlo dovevano usare le memorie digitali e far sopravvivere la dinastia di alcune di queste persone capaci di poterle leggere.
Così si costruirono dei rifugi sotterranei, in luoghi segreti e inaccessibili, dentro l’eterna pietra delle più alte montagne, e qui si conservarono gli Scrigni della Conoscenza. A proteggerli vennero messi i Veggenti, coloro che potevano entrare e viaggiare dentro quegli scrigni.
L’ultima alba si accese sul mondo del vecchio uomo, e il sipario d’acqua ricoprì la grande era moderna. L’uomo sarebbe sopravvissuto, nella vergogna del suo passato.

…Ma in uno degli ultimi villaggi sopravvissuti, libero ormai dall’antico vincolo della microcellula familiare, la grande tribù attendeva con fermento la nascita di un nuovo cucciolo…tutti condividevano la paura e la gioia di quel momento, uniti dall’idea di essere “Uomini”, non di essere “parenti”.
Tutta la tribù aspettava quel momento con trepidazione, mentre antiche superstizioni riaffioravano dal passato, come ombre mai morte nella loro coscienza.
Il visionario vestito di piume e di pelli di coccodrillo si avvicinò alla capanna, suonando il suo magico sonaglio: cantava e ballava, come in preda a scosse elettriche e movimenti epilettici, inebriato dalle sostanze che aveva ingerito e bevuto, veleni figli della mutazione e della corruzione della natura…
Frutti che estendono la percezione, dal succo tossico e allucinogeno.
“OIE!ORANE’! GARANAH! PUATIE!” Urlava il vecchio, mentre la tribù seguiva muta la sua danza circolare. Le sue parole non significavano nulla in senso stretto, nulla a che fare con la logica, con il principio del terzo escluso o del principio di identità: frasi extralogiche, sparate dall’inconscio, sature di emozioni e di significato per una mente sensibile al cuore.
Un avvertimento, un monito per gli spiriti invisibili che scuotono la terra: “VIA! VIA!” sembrava urlare lo shamano “LASCIATELO STARE! VIA!”
E la danza continuava, accompagnata dal suono di pelli stese, battute con violenza dai percussionisti.
Il grido della donna squarciò la notte, sembrò smuovere le fiaccole fuori dalla tenda:
nessun pianto liberatorio…
Il terrore invase la tribù.
Da anni non vedevano un neonato, sano, intendo. La fossa di Rulakh, il crepaccio dove i bimbi nati deformi venivano gettati poco dopo la nascita, sembrava gemere affamato. Lo shamano gettò il suo sonaglio, entrò nella tenda, e la folla iniziò a mormorare come milioni di mosche.
Un altro fallimento?
Un altra maledizione?
Ma avvenne il miracolo, quell’evento straordinario che stupisce e incute timore, simbolo della nostra precarietà, della nostra incapacità di capire il mondo nelle sue intime leggi.
Il bambino crebbe sano e forte, imparò da Ughish a catturare i pesci-lampreda con l’aiuto dell’arpione, a sventrarli e cucinarli, imparò da Emre come si caccia con l’arco e come si scuoiano le prede per fabbricare indumenti, da Rutha apprese l’arte del canto, migliorò le sue doti di ballerino grazie ai consigli di Bomak, ma ciò che più lo stupiva, e che lo impauriva a volte, era il vecchio shamano Ghota.
Non parlava mai, soltanto nelle sue invocazioni e preghiere era possibile udire la sua voce,
il suo voto del silenzio poteva esser rotto solo allora, o gli spiriti gli sarebbero entrati dalla gola per afferrargli il cuore.
Ben presto il bambino crebbe, dopo 100 cicli lunari venne il momento dell’investitura: stava per ricevere il NOME.
Il ragazzo visse la preparazione a quell’evento con trepidazione e terrore: le donne lo lavarono e vestirono con le vesti rosse, intrecciarono i suoi capelli e tagliarono il suo codino, chiudendolo in una sacca.
Dipinsero il suo volto con il segno dell’UOMO e lo baciarono in bocca e sulla fronte, come per salutarlo, per dire addio alla sua infanzia.
In un modo orribile e pericoloso non vi era posto per il gioco, e l’uomo senza ancora un nome lo avrebbe presto imparato a sue spese. Le tende si aprirono, i tamburi vibrarono in un ritmo incessante, per arrestarsi di colpo al suo arrivo: era il momento.
Gotha era molto invecchiato, la sua curva andatura somigliava al moto di una goffa tartaruga piumata, difesa dal suo guscio di scaglie e adornata da mille sgargianti colori. Il vecchio agitò nell’aria il suo magico sonaglio, tutta la tribù si distese con il volto a terra, in un silenzio assordante. Impose le mani sulla fronte del giovane, spalancò la bocca per pronunciare il nome ricevuto dalle sue visioni la notte prima.
Ma il proiettile ad alta penetrazione mozzò la voce del vecchio in un grido soffocato, il petto esplose inondando di sangue il raggiante piumaggio. Gli uomini neri discesero dal cielo, mentre i draghi di acciaio comparivano come lampi oscuri da dietro le colline, affamati, spietati, imbattibili. Ovunque il rombo delle loro ali, dappertutto pioveva piombo mortale.
Presto le capanne arsero di fuoco chimico, la polvere cadde e si incendiò, uccidendo Rutha, Ughish, Bomak, Emre e tutti i suoi fratelli.
Ma lui sopravvisse. Inspiegabilmente, come un altro, prepotente miracolo, la sua vita non fu recisa quella notte. Non era ancora il momento, forse la morte non accetta anime senza nome, deve chiamarle per compiere il suo lavoro, e lui non ne possedeva ancora nessuno…
L’uomo che non aveva ancora un nome riuscì a fuggire, piangendo per giorni, maledicendo il cielo e gli uomini neri che gli avevano rubato tutto, anche il suo nome. Ma che non potevano sottrarli ciò che più lo rendeva Uomo.
La sua capacità di chiedersi “PERCHE’” la sua tribù fu sterminata.
“PERCHE’” gli uomini neri scesero dal cielo quella notte, la sua notte, per rubargli il nome.
“PERCHE’?” Tuonava nella sua testa, mentre la rabbia gli annebbiava la vista.
“PERCHE’?”

«Squadra d’assalto Manticora a rapporto, Signore.»
Il veggente oscuro rimase seduto sull’ampia poltrona di pelle, senza neanche voltarsi… Il fumo del sigaro vorticava nell’aria annodandosi, estendendosi, per poi contrarsi ancora, come un serpente sinuoso e spettrale:
«Avete raggiunto il bersaglio?»
«Raggiunto e Ripulito, Signore…»
Il Generale si voltò, ruotando lentamente la poltrona. I suoi innesti oculari brillavano nella sala, il freddo rumore dello zoom ottico squarciava l’aria.
Inquadrò le pupille del soldato, osservò ogni loro dilatazione o variazione, misurò con attenzione la tensione delle labbra, ogni segnale veniva registrato e confrontato con gli schemi emozionali installati.
«Avete prelevato il soggetto?»
I fotoricettori del generale segnalarono una variazione di 1.4 punti nelle pupille del soldato. Aspirò di nuovo il sigaro, per dare vita ad un nuovo miraggio di fumo.
«Non è stato possibile, signore, il soggett…»
Il generale lasciò cadere il sigaro, la moquette a scacchi bianchi e neri iniziò a crepitare debolmente.
Il Soldato deglutì debolmente, mentre l’uomo seduto si alzò, rivelando la sua immensa statura, frutto dell’esoscheletro al titanio vulcanizzato marcato Biotrust, un gioiello della bio-ingegneria post moderna: doppio polmone rivestito in sintederma a prova di PNX, fegato potenziato, apparato digerente agli acidi naturali, valvola cardiaca con triplo sistema di controllo del pompaggio, ed ogni altra futuristica protesi per estendere l’aspettativa di vita erano stati impiantati nella struttura portante, una cassaforte ossea inattaccabile, un oggetto unico ormai, un artefatto del passato irripetibile, un armatura sottopelle con sistema di manutenzione automatico a 64 cellule di nanochirurghi.
«Il soggetto…»
Tentò di continuare il soldato, ma il generale lo zittì con un gesto secco della mano.
«Riorganizza la tua squadra, arma i flyer, localizza il soggetto e portamelo VIVO.»
Il soldato non aggiunse niente, la fortuna lo aveva baciato, nessuna punizione o condanna,
un nuovo ordine, soltanto un nuovo ordine…
Quando si voltò, il sorriso ebete sul suo volto mutò in una smorfia di sgomento: l’ordine non era diretto a lui, ma al tenente Genkis, l’uomo che era entrato silenziosamente nel bunker come un predatore assassino.
Il generale sparò alla schiena del soldato con una vecchia calibro 12 da collezione, proiettile in oro, testa limata: il foro d’uscita sembrava un oblò di un sottomarino.
Sprizzi di sangue sintetico, pregno di droghe da combattimento e residui di stimolanti, macchiarono la cravatta del tenente Genkis, che osservò la scena senza batter ciglio.
«Ordine ricevuto, Generale. Non la deluderò…»
La moquette stava ormai bruciando, ma nel giro di pochi istanti, i nanorobot che componevano il tessuto si ridisposero nella stanza, questa volta formando un intreccio simmetrico di rombi e triangoli: isolarono le nanofibre danneggiate e le sostituirono con delle nuove.
Genkis uscì di fretta dal bunker, mentre un altro esercito di nanorobot iniziava il lavoro di ripulitura della stanza….
Il generale si adagiò sulla poltrona, reclinò lo schienale ed estrasse un altro sigaro maleodorante. Sul vecchio pacchetto la scritta -il fumo provoca il cancro-
“Non a me…” Disse fra se e se il Generale, mentre il doppio polmone si ripuliva da solo dal catrame residuo…
“Siamo noi il cancro del mondo.”
Si era messo a parlare da solo circa sei mesi fa: ogni volta che era sicuro di non essere ascoltato da nessuno commentava ad alta voce, ma non per parlare, per ASCOLTARE il suono di una voce che non lo chiamasse -signore- che non provasse paura o timore nei suoi confronti.
Quanto tempo era passato dall’ultima conversazione informale?
Non ricordava più il suono di una risata, il calore di una stretta di mano, una domanda, nulla di tutto ciò era presente nella sua memoria: soltanto ordini, direttive, comandi.
Ogni conversazione che ricordava era di tipo gerarchico: non parlava CON le persone, parlava ALLE persone, da una posizione di potere dove gli era concesso tutto, dove LUI era la verità dei fatti.
“Io sono un Dio… e un Dio non si ammala di cancro…”
Accese il sigaro e sospirò
“Si ammala di solitudine.”
Ma i rombi dei Flyer lo distrassero dai suoi pensieri, i reattori all’iridio fecero vibrare le pareti del bunker, come un piccolo sisma.
“Dove sarai adesso?”
Inspirò una lunga tirata, ed il sigaro brillò come un tizzone.
“DOVE?”

«SONO QUA!»
Per un istante il Generale credette che la voce prevenisse da qualche parte dentro la stanza. Invece era nella sua testa, in una diramazione sintetica del sistema percettivo. Era la voce di un ragazzo, squillante e nitida.
L’attacco lo aveva colto alla sprovvista, ma innalzò immediatamente un schermo protettivo. Erano anni che non ne faceva uso, ma riuscì velocemente a partizionare la mente, in modo che una porzione di questa non fosse accessibile da agenti esterni. Con quella avrebbe ragionato senza paura di poter dare un vantaggio al suo interlocutore mentale.
«Hai fatto presto a trovarmi» rispose il Generale, seguendo le onde cerebrali che lo avevano contattato ed entrando nella mente dell’intruso. Era come addentrarsi in una foresta vergine, un intricato universo di domande.
«Perché?» La testa del ragazzo urlava quella parola. Il Generale avvertì una pulsazione intensa all’altezza della tempia destra, una leggera fitta che lo sorprese.
Il contatto confermava i suoi timori, e dava un senso all’attacco portato a termine dai suoi uomini. Purtroppo non erano riusciti nel loro compito, e le conseguenze di questo fallimento potevano essere devastanti. Gli Scrigni della Conoscenza erano adesso alla portata di un quel giovane, e la loro lettura poteva corrompere le nuove generazioni.
Ciò che lo stupiva era la forza di quella proiezione mentale, l’intensità della sua “voce”, il controllo innato, la fisicità. Le menti potevano leggere, ma c’era chi raccontava storie di uomini capaci di manipolare la struttura attraverso il pensiero. Quelle storie le aveva sempre considerate leggende. Eppure il ragazzo lo aveva “punto”…
«Perché avete sterminato la mia tribù?»
Il pensiero era pregno di un pianto di dolore. Questa volta la “puntura” non arrivò alla fronte ma da qualche parte nel petto. La valvola cardiaca interruppe per un attimo la sua funzione di pompaggio. Il Generale si senti vacillare.
«Ragazzo, tu non capisci…»
Ma la frase si spezzò in un urlo. Un dolore lancinante come di carne lacerata gli esplose all’altezza dell’addome. Il Generale si piegò in due sulla poltrona girevole.
«Cosa non devo capire? Mi avete tolto tutto, anche il mio nome…»
“Pratiche tribali”, pensò il veggente con la parte schermata della sua mente. Ma si accorse che il ragazzo era riuscito a penetrarla, come luce che, filtrando in una camera oscura, rovina la pellicola. Si sentì sotto scacco ma non avrebbe mollato la presa. Forse quella era la loro unica possibilità di ritrovare il fuggitivo. No, non avrebbe azionato lo scudo mentale. Non ancora.
Come risposta ebbe una scarica elettrica che lo trapassò in verticale come un fulmine caduto da cielo. La potenza cerebrale del ragazzo era davvero notevole. Trovare le frequenze giuste per accedere alle banche dati sarebbe stato uno scherzo per un talento del genere.
«Quali banche dati? Cosa significa?»
Ci era cascato, maledizione. Aveva ormai completo accesso alla sua mente. Doveva alzare lo scudo…
«Cosa succede…» La voce del Generale era un sottile brusio. Dagli innesti oculari incominciò a sgorgare del liquido scuro che poteva essere un cocktail letale di sangue, olio lubrificante e materia grigia. Il suo corpo era completamente immobilizzato alla sedia. La mente era una stanza con porte e finestre spalancate, ma lui non poteva accederci.
Si sentì svuotare velocemente. I suoi pensieri, le sue conoscenze, le sue paure. Tutto fuoriuscì dalla sua testa, immagini mentali che, convertite in impulsi binari, viaggiavano attraverso l’etere alla velocità della luce.
Prima che l’oblio scendesse definitivamente sui suoi occhi, il veggente riuscì a formulare un ultimo pensiero. “Tutto stava per ricominciare!” Poi anche questa immagine fu trasformata in codici proiettati nello spazio.
Lo trovarono poco dopo due soldati. Il corpo ricadeva sulla poltrona come un sacco di stracci da lavare, gli occhi si aprivano a chiudevano come se gli innesti avessero subito un corto, mentre il liquido continuava a sgorgare macchiandogli gli zigomi. Lo sguardo dei due soldati si soffermò per un attimo sulla bocca del Generale che accennava un mezzo sorriso.
«Lo hanno svuotato.» disse uno.
«Avvertiamo Genkis!» rispose quell’altro.
Sulla moquette intanto i nanorobot continuavano le loro assurde pulizie.

Grezzo Illusivo - 2007