sabato 28 agosto 2010

IL TRENO DI ALI'



C'era una volta un bambino di nome Alì che amava moltissimo i treni, e ogni tanto li vedeva passare dalla finestra di camera sua, una baita di legno che dava sulla valle e sul paesino vicino, dove c'era una piccola stazione di mattoni rossi. Si domandava dove fossero diretti e chi portassero, e se anche lui un giorno sarebbe montato su un treno che lo avrebbe condotto lontano.
Passarono gli anni e quel giorno arrivò. Alì salì su un treno tutto giallo che andava veloce e senza sbuffi. Attraversò la valle ed i verdi pascoli, aggirò le montagne e tagliò in due il paese, fino a che non raggiunse il mare. Là vi era un grande porto in cui vi era ormeggiata una barca con due enormi vele multicolori. Alì seppe nel momento in cui la vide che quella era la sua barca. Allora montò sopra e il capitano della nave, che si chiamava Augusto, gli dette il benvenuto e subito si preparò a mollare gli ormeggi.
La barca condusse Alì in mare aperto, e per molti giorni veleggiò col sole mattutino in faccia. Finalmente raggiunse un'isola, e su questa vi era una pista d'atterraggio, piccola e con un unico aeroplano. Alì seppe, nel momento in cui lo vide, che quel velivolo aspettava proprio lui. Il pilota gli fece un segno col capo e lo invitò a salire a bordo. Decollarono insieme nel cielo blu, si lasciarono l'isola alle spalle e andarono verso sud, dove l'aria era calda e la gente piena di allegria. Poi si diressero ancora ad oriente fino alla penisola di un continente lontano lontano. L'aereo atterrò vicino ad una rampa di lancio sulla quale una navetta spaziale era pronta per il decollo. Alì riconobbe subito lo shuttle e senza esitazione indossò una tuta spaziale e vi s'infilò dentro. Gli altoparlanti scandirono sonoramente il conto alla rovescia. Meno dieci, meno nove, meno otto, meno sette...
La navetta lasciò la Terra con una scia di fumo bianco, e viaggiò rapida attraverso il sistema solare, oltre Nettuno e Plutone, e poi raggiunse le prime stelle, più veloce della luce attraversò l'intera galassia, fino a che non trovò un pianeta piccolo piccolo con un letto a baldacchino, e quel pianeta era talmente minuto che non c'era posto che per quel letto. Alì seppe che quella era la sua meta. Azionò il comando di espulsione e, grazie ai reattori della sua tuta, raggiunse il piccolo pianeta. Ed era così stanco che, di fronte a quel letto, s'infilò subito sotto le coperte e appena chiuse gli occhi si addormentò.
Sognò di trovarsi al binario della stazione del suo paese, ad aspettare il suo treno...

venerdì 6 agosto 2010

IL GUERRIERO DORMIENTE

IL GUERRIERO DORMIENTE

dalle “Memorie di Udrien, il forgiatore di leggende”

Di notte, appena chiudo gli occhi, odo le urla della mia prima battaglia. In bocca mi torna il sapore della sabbia insanguinata, la pelle vibra al ricordo delle energie sprigionate dagli stregoni di entrambi gli schieramenti, e un’ombra si adagia sul mio cuore.
Avevo solo sedici anni ed era la prima volta che impugnavo una spada. Tre cavalieri arrivarono al villaggio in cui abitava la mia famiglia, mio padre, mia madre e la mia sorellina. Ci dissero che il paese era stato attaccato, che servivano nuovi soldati da mandare in battaglia. Noi non sapevamo niente degli affari del grande mondo. Coltivavamo patate e mungevamo vacche, e per intere decadi era sempre stato così. Ogni tanto un messaggero veniva ad informarci che un nuovo re sedeva sul trono, o che una nuova legge era stata introdotta, ma a nessuno importava, perché il villaggio era piccolo e le cose rimanevano sempre uguali.
Le guerre erano troppo lontane perché potessero preoccuparci. Non avevamo né un’autorità né un capovillaggio. Eravamo una ventina di famiglie che usavano ritrovarsi ad ogni quarto di luna per parlare dei raccolti e del bestiame. Il nostro era un paesello tranquillo, lo era sempre stato, almeno fino a quel giorno.
Mio padre era caduto dal tetto pochi giorni prima e si era fratturato un piede. Per questo motivo non lo presero. Ma il cavaliere con gli occhi azzurri e il mantello sporco di sangue puntò l’indice verso di me, che me ne stavo davanti alla stalla, con un forcone in mano e una balla di fieno per il cavallo. Mi disse: «Posa il forcone, ragazzo, e prendi questa spada.»
Ricordo di essermi mosso in automatico. Mia madre urlava disperata, mia sorella piangeva e mio padre, che si era trascinato con la stampella fuori dal letto, sputava ingiurie contro i cavalieri. Loro rimanevano impassibili, forse perché erano abituati a quelle scene.
Afferrai la spada che mi era stata consegnata e rimasi sorpreso perché, nonostante fosse piccola, pesava molto di più del forcone. Cosa avrei potuto farci io? Cosa si aspettavano da me? Sarei morto di sicuro…
Tutti questi pensieri mi attraversarono la testa, infrangendosi su qualcosa che era dentro di me e che ancora non conoscevo. L’avrei scoperta col tempo, battaglia dopo battaglia, dentro gli occhi dei miei più terribili avversari. Quella cosa non ha un nome, è come un muro solido ed insormontabile, che s’innalza davanti al cuore, lasciando fuori la paura.
Mi unii ad altri quindici uomini prelevati dal villaggio, che a testa bassa s’incamminarono dietro ai cavalieri, tutti certi di non fare più ritorno. Anch’io sentivo che non sarei tornato, eppure sapevo che non avrei trovato la morte nella battaglia che ci aspettava. Mentre camminavo tenevo la spada dritta di fronte ai miei occhi. La osservavo, la studiavo, memorizzando il contatto dei miei polpastrelli sull’impugnatura avvolta nel cuoio. Era come se mi avesse incantato. Alcuni dei contadini provavano dei fendenti, esibendosi in movimenti impacciati, improvvisando una rudimentale tecnica di difesa. Io invece cercavo di entrare nella spada. Era come se la sentissi chiamare il mio nome.
Qualcuno durante la marcia incominciò a fare delle domande ai cavalieri. Avevamo il diritto di sapere perché andavamo a morire, ma i tre davano risposte vaghe, e sembravano quasi più confusi di noi. Capii immediatamente che la speranza aveva abbandonato i loro cuori. L’esercito aveva subito gravi perdite e per questo si erano ridotti a reclutare i contadini. Al momento era in corso una tregua che sarebbe durata fino alla luna nuova, tre giorni più avanti, poi ci sarebbe stata la battaglia finale, sulle sconfinate praterie del nord.
In quei tre giorni non parlai con nessuno. Qualcuno pensò che non stessi bene, che lo shock di essere stato trascinato lontano da casa mi avesse tolto la parola. In verità parlavo, ma sottovoce, o forse solo nella mia testa. Parlavo a lei, la mia spada, e anche lei mi parlava, con una voce stridula, tagliente. A volte cantava, ed era bella la sua voce. Più spesso si lamentava. Chiedeva…
Era una semplice spada di ferro, con un’impugnatura grezza avvolta in un pezzo di cuoio consunto, un oggetto privo di valore, eppure per me era come un gioiello, anzi no… Era qualcosa di vivo, con un anima, un pensiero, uno scopo. Tre giorni dopo capii finalmente perché si lamentava. Quando trafissi il mio primo nemico la sentii urlare di gioia. Era quello che voleva. Era quello per cui esisteva. Il sangue…
Se vuoi sopravvivere in battaglia devi pensare solo a te stesso. Nella mischia la polvere si alza ben sopra la tua testa, la visuale si riduce a pochi metri, i cavalli mietono più vittime delle spade, e poi ci sono gli incantesimi, che a volte ti esplodono ai piedi o ti rimbalzano sulla schiena. La fortuna può valere molto di più di una buona tecnica.
Il segreto mi si dipanò nel momento stesso in cui fui circondato dal caos della battaglia: concentrazione e controllo del flusso adrenalinico. Piantato saldamente sulle mie gambe, potevo avvalermi di una discreta forza, grazie anche agli spossanti lavori nei campi. La spada incominciò subito a cantare nella mia testa, una vibrazione piacevolmente dolorosa che dalla mano con cui la impugnavo saliva fino al cuore. In quel momento sentii la presenza di una parte sopita di me, una forza complementare della quale ero sempre stato all’oscuro. La sentii perché in quel momento stava per risvegliarsi.
Un massiccio guerriero del nord dai lunghi capelli biondi, increspati di sangue e di sudore, si gettò verso di me. La sua armatura era imponente, fatta di scaglie di metallo e fasce di cuoio. Brandiva un’enorme ascia bipenne che roteava sapientemente sopra la sua testa. Dieci metri. Cinque metri. Due metri…
Non mossi neanche un dito fino all’ultimo istante, quello decisivo. Poi scartai di lato, evitando il fendente, e mi rialzai con l’agilità di un felino. Mi bastò uno sguardo per individuare il punto debole del mio avversario. Lasciai fare tutto alla spada. Ne seguii il canto. Lei s’infilzò con facilità nella parte interna del ginocchio del guerriero, tagliando nervi e tendini, dissetandosi come un bove lasciato nel recinto in un giorno assolato, mentre le urla del biondo soldato si mescolavano a quelle di mille altri.
Gli fui sopra con un balzo, lo guardai negli occhi, gli lessi la paura e ne fui incuriosito. Quella parte di me che aveva vissuto al villaggio per sedici anni, al fianco di un padre premuroso ed una madre gentile, mi tratteneva dall’affondo fatale, ma l’altra metà, quella nuova e appena risvegliata, voleva fare colazione. Fu lei a guidare la mia mano, e affondare la spada nella gola della mia vittima.
Un mercenario che combatteva al mio fianco mi vide e da quel momento non mi staccò più gli occhi di dosso. “Seguimi e farò di te il più grande guerriero delle terre del nord» mi disse, mentre falciava i nemici che ci si facevano sotto. Io rimasi accanto a lui per tutta la durata della battaglia, e fu così che riuscii a sopravvivere. Il nostro esercito venne sbaragliato, trovammo rifugio sulle montagne, io e lui da soli. Il giorno dopo iniziò l’addestramento. Il suo nome era Walkor, e per me fu molto più di un maestro.
Di notte, appena chiudo gli occhi, odo le urla della mia prima battaglia. In bocca mi torna il sapore della sabbia insanguinata, la pelle vibra al ricordo delle energie sprigionate dagli stregoni di entrambi gli schieramenti, e un’ombra si adagia sul mio cuore…
…è il ricordo di quella parte di me che non esiste più. Il ragazzo che si chiamava Jillian. Oggi è diventato un uomo e nel mondo è conosciuto con il nome di Udrien.

GM Willo

domenica 1 agosto 2010

L’UOMO DELLE MONTAGNE



La foresta non era sempre stata laggiù.
Ai tempi in cui la comunità dei Falconieri decise di stabilizzarsi nella Valle dei Canti, una larga striscia di terra ricca di alberi da frutto e ruscelli, vi era solo un paesaggio piatto ed incolore oltre la collina più alta, all’orizzonte del quale brillava violentemente un enorme sole azzurro.
Il padre di Diamond raccontava spesso di come un giorno di molti anni prima, salendo sulla collina per far volare il suo falco, aveva scoperto la grande foresta. Giunto in alto aveva guardato oltre la cresta e si era meravigliato davanti a quel mare ombroso di vegetazione che si estendeva fino a una lunga striscia di montagne dai picchi ameni e tinteggiati di bianco. Il sole azzurro doveva trovarsi oltre quella nuova catena montuosa, e il cielo riverberava di argento sopra quel paesaggio appena coniato. Questo era Limbo, un mondo in continuo cambiamento, dove le terre scivolavano via sotto i piedi degli uomini come il tempo sulle loro pelli.
Diamond aveva investito la carica di Cacciatore del Villaggio da qualche giorno, ma ancora non era mai uscito oltre la valle per il suo nuovo incarico. La foresta però la conosceva bene, perché per molti anni era stata il suo rifugio ed il suo posto speciale. Vi si recava quando la solitudine lo attanagliava, mettendo a nudo la sua scomoda condizione di giovane erede al Guanto Dorato di capo del villaggio. Era la carica che suo padre aveva in serbo per lui e non poteva rifiutarla.
Ereditare le responsabilità di una comunità intera non era cosa da poco. I Falconieri contavano oltre duecento elementi, compresi donne e bambini, e organizzare la prossima migrazione sarebbe stato il suo più grande compito, il compito di ogni capo delle decine di comunità nomadi di Limbo.
Quando il sole rosso che determina la fine del mondo fosse apparso all’orizzonte, sarebbe giunto di nuovo il tempo di migrare verso il sole azzurro, alla ricerca di una nuova terra sulla quale fondare il villaggio. Il pensiero di quella grossa responsabilità lo faceva spesso sentire solo nell’insicurezza di non sentirsi all’altezza di quell'incarico.
Mentre quei pensieri turbinavano nella sua mente, si ricordò del suo amico falco che cacciava sopra le alte chiome della foresta. Scrutò lo squarcio di cielo dalla radura nella quale era giunto ma non vi era traccia dell’uccello. Vide però del fumo librarsi dal fianco della montagna più vicina, segno inconfondibile della presenza di un viaggiatore poco avveduto. Era infatti risaputo che la catena montuosa oltre la Valle dei Canti era azzardata e priva di sentieri facili, e una leggenda parlava anche di uomo solitario e pericoloso che si aggirava con misteriosi intenti tra i boschi e le nevi perenni di quei rilievi. I Falconieri evitavano accuratamente le montagne, e i viaggiatori saggi sapevano che vi erano strade migliori per attraversare quel territorio.
Diamond chiamò il suo falco con tre acuti suoni del fischietto che teneva appeso al collo, una sequenza di note che era il tipico richiamo dei Falconieri. Attese qualche istante, mentre il silenzio della foresta lo sovrastava, e si guardò attorno, aspettandosi di veder sopraggiungere da un momento all’altro il suo amico alato. Ma non accadde niente.
Con l’agilità di uno scoiattolo il ragazzo incominciò ad arrampicarsi su un albero che sporgeva la chioma oltre il tetto della foresta, e giunto abbastanza in alto da poter gettare lo sguardo in ogni direzione, soffiò tutto il fiato che aveva nei polmoni dentro l’imboccatura del fischietto. Il falco però continuava a non rispondere al richiamo. Scrutando il cielo giallo sopra la foresta, Diamond si accorse che nessun uccello vi volteggiava, nessuna nuvola lo attraversava, e il sole era scomparso, fuso insieme al cielo stesso per dare vita a quell’intensa luminosità dorata.
Significava che si stava facendo tardi e che il quinto margine del giorno era passato da tempo. A casa i suoi genitori lo stavano già aspettando, ma non poteva tornarsene al villaggio senza il suo amico alato. Sarebbe stato un grande disonore per qualsiasi falconiere, figuriamoci per l’ereditario del Guanto Dorato.
Continuò a fischiare seduto sul ramo del gigantesco albero, sperando di scorgere un movimento, un segno della presenza del suo amico. Un grido squarciò il silenzio della foresta. Diamond sussultò e per poco non perse la presa che lo teneva aggrappato al ramo. Era sicuramente il richiamo del suo falco, e sembrava provenire dalla montagna, dove continuavano a librarsi nell’aria le nuvolette di fumo del bivacco del viandante. Con due agili salti Diamond atterrò sul sentiero e senza perdere tempo si diresse verso la montagna, verso il richiamo dell'uccello che presagiva un pericolo.
Giunto ai piedi dell’altura si accorse che la foresta continuava a ricoprire il terreno per quasi l’intero fianco della montagna, ma appena il sentiero incominciò a inerpicarsi tra le rocce e la vegetazione, questi si perse in una piccola radura priva di sbocco. Alzò gli occhi al cielo che perdeva lentamente il suo colore dorato per farsi scuro e buio. Adesso Diamond temeva di non riuscire a tornare a casa se l’imprevedibile notte di Limbo fosse sorta senza luna e senza stelle.
Usò nuovamente il fischietto nella speranza di un qualche risultato. Da quella radura poteva solo tornare indietro per il sentiero dal quale era giunto, oppure tentare la sorte verso una direzione casuale dentro la vegetazione, una decisione che poteva farlo smarrire nelle viscere della foresta. Ora non temeva solamente per la sorte del suo amico falco ma anche per la sua. Gli tornarono in mente le storie sull’uomo delle montagne, lo strano tizio che si aggirava da quelle parti senza una meta apparente, un mago secondo alcuni, un pazzo secondo altri. E se fosse stato il suo fuoco quello che aveva intravisto dalla cima dell’albero?
Ad un tratto la temperatura sembrò calare vertiginosamente, ma il fenomeno durò solo qualche secondo. Poi il paesaggio attorno al ragazzo crepitò di elettricità, un effetto ottico che fu subito accompagnato da una melodia inafferrabile, uno di quei rari fenomeni chiamati Canti di Limbo, musiche provenienti da remote dimensioni che affioravano nell’aria nei momenti più strani. La melodia durò meno di un minuto, spegnendosi con una nota lunga e grave, poi tutto sprofondò nel silenzio. Un attimo dopo Diamond avvertì un movimento alle sue spalle tra i cespugli, ma era come pietrificato e per un istante non riuscì a muovere un dito. Poi, come scosso da una forza interiore sconosciuta, girò su stesso sfoderando il coltello che teneva appeso alla cintura, un regalo del padre per la sua nuova investitura.
Davanti ai suoi occhi lo sovrastava una figura imponente. Aveva il volto come scolpito nella roccia, ed occhi che sprofondavano in un precipizio di assurde conoscenze. Quando lo sguardo del ragazzo incrociò quello dell’uomo, una baratro di follia si aprì sotto i suoi piedi. Diamond vide riflesso negli occhi dell’uomo una vita lontana milioni di ere. Sembrava che l’intera figura, alta una spanna più di lui, emanasse una strana fluorescenza. L’uomo delle montagne era muto, ma parlava con gli occhi.
«Ragazzo, che pena mi fa la tua vera natura, la tua sola bugia…»
Le parole dell’uomo non avevano suono, eppure la mente di Diamond riusciva a percepirle. Quale fosse il loro significato non avrebbe mai potuto intuirlo. Il ragazzo si voltò di scatto e si gettò nella foresta, alla ricerca di quel sentiero che lo avrebbe ricondotto a casa. Udì il suono di un ghigno rimbombare dentro la sua testa, come se lo straniero ridesse di lui e della sua vigliaccheria. Il sentiero si era fatto liquido sotto i suoi piedi, ed ignorava il dolore dei rami che gli sferzavano la faccia. Diamond era lanciato in una folle fuga lontano da quell’uomo, e di sicuro non si sarebbe neanche voltato un momento se i suoi pensieri non fossero andati all’amico falco. Non fu la paura di essere disonorato per la perdita dell’animale che lo fece fermare, ma la genuina preoccupazione per il suo fedele amico. Diamond frenò la sua corsa appigliandosi ad un ramo e voltò lo sguardo verso la radura appena lasciata. Lo straniero era ancora laggiù e stringeva qualcosa nella mano, qualcosa che si dimenava gridando; il suo falco.
«Lascia andare il mio falco!»
Diamond sentì gridare queste parole dalla sua bocca, una reazione che lo sorprese profondamente. Provò a pensare a come uscire da quella situazione, ma si accorse di non avere nessuna possibilità. L’uomo che aveva davanti era sicuramente un mago e la sua vita era ormai nelle sue mani. Poteva solo continuare a fidarsi di quell’istinto che lo aveva fatto fermare e urlare quelle parole. Lo straniero rise nella sua testa, ma il suo volto era sempre di roccia.
«Hai coraggio, piccolo Arcon. Chissà che strana derivazione sei? Potresti essere addirittura mio parente?»
Ancora una volta quelle parole attraversarono la mente di Diamond senza lasciare traccia. Il ragazzo non aveva la minima idea di cosa stesse dicendo lo straniero.
«Non so di cosa state parlando. Io sono solo un Falconiere della valle, e quello è il mio falco. Lasciateci andare!»
L’uomo avvicinò al suo volto l’uccello che si dimenava.
«Rivuoi il tuo amico?» Domandò l’uomo nella testa del ragazzo. «Ecco qua!»
Con un rapido movimento del braccio lo straniero scagliò l’animale verso Diamond che lo vide congelarsi nell’aria, paralizzato da qualche strana magia, e atterrare ai suoi piedi con un rumore di vetri spezzati. Incredulo il giovane Falconiere vide il suo falco andare in frantumi.
Se la follia non lo colse davanti a questa visione, per poco non ci riuscì quando la risata dell’uomo attraversò nuovamente la sua testa. In quel momento la foresta incominciò a girare e Diamond si ritrovò disteso sopra i pezzi di vetro sparsi sul sentiero. Due notti caddero in quel momento, quella di Limbo sul paesaggio e quella del ragazzo nella sua mente.
Quanto di tutto ciò fosse stato un sogno oppure no lui non riuscì mai a capirlo. Diamond venne svegliato la mattina dopo dal punzecchiante becco del suo amico. Ripercorse il sentiero fino alla Valle dei Canti, trascinando due gambe pesantissime e tenendosi una testa dolorante tra le mani.
Da allora si tenne molto distante dalle montagne, ma ogni volta che visitava la foresta gettava lo sguardo verso di quei rilievi, cercando il segno di un bivacco, una traccia di fumo nel cielo. E a volte succedeva che vi era davvero qualcuno lassù che alimentava un fuoco, probabilmente un viandante poco avveduto, un nomade sulla strada sbagliata, oppure…

GM Willo per il progetto Limbo