venerdì 6 agosto 2010

IL GUERRIERO DORMIENTE

IL GUERRIERO DORMIENTE

dalle “Memorie di Udrien, il forgiatore di leggende”

Di notte, appena chiudo gli occhi, odo le urla della mia prima battaglia. In bocca mi torna il sapore della sabbia insanguinata, la pelle vibra al ricordo delle energie sprigionate dagli stregoni di entrambi gli schieramenti, e un’ombra si adagia sul mio cuore.
Avevo solo sedici anni ed era la prima volta che impugnavo una spada. Tre cavalieri arrivarono al villaggio in cui abitava la mia famiglia, mio padre, mia madre e la mia sorellina. Ci dissero che il paese era stato attaccato, che servivano nuovi soldati da mandare in battaglia. Noi non sapevamo niente degli affari del grande mondo. Coltivavamo patate e mungevamo vacche, e per intere decadi era sempre stato così. Ogni tanto un messaggero veniva ad informarci che un nuovo re sedeva sul trono, o che una nuova legge era stata introdotta, ma a nessuno importava, perché il villaggio era piccolo e le cose rimanevano sempre uguali.
Le guerre erano troppo lontane perché potessero preoccuparci. Non avevamo né un’autorità né un capovillaggio. Eravamo una ventina di famiglie che usavano ritrovarsi ad ogni quarto di luna per parlare dei raccolti e del bestiame. Il nostro era un paesello tranquillo, lo era sempre stato, almeno fino a quel giorno.
Mio padre era caduto dal tetto pochi giorni prima e si era fratturato un piede. Per questo motivo non lo presero. Ma il cavaliere con gli occhi azzurri e il mantello sporco di sangue puntò l’indice verso di me, che me ne stavo davanti alla stalla, con un forcone in mano e una balla di fieno per il cavallo. Mi disse: «Posa il forcone, ragazzo, e prendi questa spada.»
Ricordo di essermi mosso in automatico. Mia madre urlava disperata, mia sorella piangeva e mio padre, che si era trascinato con la stampella fuori dal letto, sputava ingiurie contro i cavalieri. Loro rimanevano impassibili, forse perché erano abituati a quelle scene.
Afferrai la spada che mi era stata consegnata e rimasi sorpreso perché, nonostante fosse piccola, pesava molto di più del forcone. Cosa avrei potuto farci io? Cosa si aspettavano da me? Sarei morto di sicuro…
Tutti questi pensieri mi attraversarono la testa, infrangendosi su qualcosa che era dentro di me e che ancora non conoscevo. L’avrei scoperta col tempo, battaglia dopo battaglia, dentro gli occhi dei miei più terribili avversari. Quella cosa non ha un nome, è come un muro solido ed insormontabile, che s’innalza davanti al cuore, lasciando fuori la paura.
Mi unii ad altri quindici uomini prelevati dal villaggio, che a testa bassa s’incamminarono dietro ai cavalieri, tutti certi di non fare più ritorno. Anch’io sentivo che non sarei tornato, eppure sapevo che non avrei trovato la morte nella battaglia che ci aspettava. Mentre camminavo tenevo la spada dritta di fronte ai miei occhi. La osservavo, la studiavo, memorizzando il contatto dei miei polpastrelli sull’impugnatura avvolta nel cuoio. Era come se mi avesse incantato. Alcuni dei contadini provavano dei fendenti, esibendosi in movimenti impacciati, improvvisando una rudimentale tecnica di difesa. Io invece cercavo di entrare nella spada. Era come se la sentissi chiamare il mio nome.
Qualcuno durante la marcia incominciò a fare delle domande ai cavalieri. Avevamo il diritto di sapere perché andavamo a morire, ma i tre davano risposte vaghe, e sembravano quasi più confusi di noi. Capii immediatamente che la speranza aveva abbandonato i loro cuori. L’esercito aveva subito gravi perdite e per questo si erano ridotti a reclutare i contadini. Al momento era in corso una tregua che sarebbe durata fino alla luna nuova, tre giorni più avanti, poi ci sarebbe stata la battaglia finale, sulle sconfinate praterie del nord.
In quei tre giorni non parlai con nessuno. Qualcuno pensò che non stessi bene, che lo shock di essere stato trascinato lontano da casa mi avesse tolto la parola. In verità parlavo, ma sottovoce, o forse solo nella mia testa. Parlavo a lei, la mia spada, e anche lei mi parlava, con una voce stridula, tagliente. A volte cantava, ed era bella la sua voce. Più spesso si lamentava. Chiedeva…
Era una semplice spada di ferro, con un’impugnatura grezza avvolta in un pezzo di cuoio consunto, un oggetto privo di valore, eppure per me era come un gioiello, anzi no… Era qualcosa di vivo, con un anima, un pensiero, uno scopo. Tre giorni dopo capii finalmente perché si lamentava. Quando trafissi il mio primo nemico la sentii urlare di gioia. Era quello che voleva. Era quello per cui esisteva. Il sangue…
Se vuoi sopravvivere in battaglia devi pensare solo a te stesso. Nella mischia la polvere si alza ben sopra la tua testa, la visuale si riduce a pochi metri, i cavalli mietono più vittime delle spade, e poi ci sono gli incantesimi, che a volte ti esplodono ai piedi o ti rimbalzano sulla schiena. La fortuna può valere molto di più di una buona tecnica.
Il segreto mi si dipanò nel momento stesso in cui fui circondato dal caos della battaglia: concentrazione e controllo del flusso adrenalinico. Piantato saldamente sulle mie gambe, potevo avvalermi di una discreta forza, grazie anche agli spossanti lavori nei campi. La spada incominciò subito a cantare nella mia testa, una vibrazione piacevolmente dolorosa che dalla mano con cui la impugnavo saliva fino al cuore. In quel momento sentii la presenza di una parte sopita di me, una forza complementare della quale ero sempre stato all’oscuro. La sentii perché in quel momento stava per risvegliarsi.
Un massiccio guerriero del nord dai lunghi capelli biondi, increspati di sangue e di sudore, si gettò verso di me. La sua armatura era imponente, fatta di scaglie di metallo e fasce di cuoio. Brandiva un’enorme ascia bipenne che roteava sapientemente sopra la sua testa. Dieci metri. Cinque metri. Due metri…
Non mossi neanche un dito fino all’ultimo istante, quello decisivo. Poi scartai di lato, evitando il fendente, e mi rialzai con l’agilità di un felino. Mi bastò uno sguardo per individuare il punto debole del mio avversario. Lasciai fare tutto alla spada. Ne seguii il canto. Lei s’infilzò con facilità nella parte interna del ginocchio del guerriero, tagliando nervi e tendini, dissetandosi come un bove lasciato nel recinto in un giorno assolato, mentre le urla del biondo soldato si mescolavano a quelle di mille altri.
Gli fui sopra con un balzo, lo guardai negli occhi, gli lessi la paura e ne fui incuriosito. Quella parte di me che aveva vissuto al villaggio per sedici anni, al fianco di un padre premuroso ed una madre gentile, mi tratteneva dall’affondo fatale, ma l’altra metà, quella nuova e appena risvegliata, voleva fare colazione. Fu lei a guidare la mia mano, e affondare la spada nella gola della mia vittima.
Un mercenario che combatteva al mio fianco mi vide e da quel momento non mi staccò più gli occhi di dosso. “Seguimi e farò di te il più grande guerriero delle terre del nord» mi disse, mentre falciava i nemici che ci si facevano sotto. Io rimasi accanto a lui per tutta la durata della battaglia, e fu così che riuscii a sopravvivere. Il nostro esercito venne sbaragliato, trovammo rifugio sulle montagne, io e lui da soli. Il giorno dopo iniziò l’addestramento. Il suo nome era Walkor, e per me fu molto più di un maestro.
Di notte, appena chiudo gli occhi, odo le urla della mia prima battaglia. In bocca mi torna il sapore della sabbia insanguinata, la pelle vibra al ricordo delle energie sprigionate dagli stregoni di entrambi gli schieramenti, e un’ombra si adagia sul mio cuore…
…è il ricordo di quella parte di me che non esiste più. Il ragazzo che si chiamava Jillian. Oggi è diventato un uomo e nel mondo è conosciuto con il nome di Udrien.

GM Willo

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