lunedì 1 febbraio 2010

IL MIO NOME É UDRIEN

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La sua spada si chiama Gilda, e può considerarsi un’estensione del suo corpo. Questo è il fine ultimo del guerriero; diventare tutt’uno con la propria arma.
Udrien osserva il nemico avvicinarsi, ne studia i movimenti, respira cercando il ritmo. Il ritmo è tutto nella battaglia. Saper seguire il ritmo significa portare la danza della morte, saper anticipare o ritardare il battito significa prendersi un bel vantaggio.
Chi è questa volta? Cosa è che si avvicina? A Udrien non interessa. Sa soltanto che quella creatura è sulla sua strada, e niente e nessuno può premettersi di frapporsi tra lui e il suo obbiettivo. Nessun rancore. Nessuna emozione. Solo il freddo e letale acciaio della sua Gilda.
L’essere è contorto, bavoso, viscido. Una nefandezza del deserto incontaminato; le terre del disordine. Le sue zampe affondano pesantemente nella sabbia, la sua lingua penzola secernendo un liquido oleoso, probabilmente mortale. Ha una coda lunga e dentata, come quella di un rettile, ma la sua corteccia ricorda quella ispida dei rinoceronti. Eppure è un essere massiccio ma guizzante, il folle incrocio tra un coccodrillo, un verro e una nutria. Le sue proporzioni però sono quelle di un elefante. Rotea gli occhi davanti alla sua perda, un massiccio uomo delle montagne. Udrien è il suo nome, ma questo l’essere non lo saprà mai.
L’aria è quella torrida e secca tipica del deserto. La polvere si mischia al sudore. Il sole impietoso continua il suo percorso verso le montagne ad occidente. Udrien è stanco, ma non vuole sentire la stanchezza. Non ascolta il suo corpo. Adesso incomincia il ritmo…
La creatura guizza spalancando le sue fauci di ratto. Usa la coda per darsi lo slancio. Le sue zampe sono corte ma ben artigliate. Un uomo comune non sarebbe sopravvissuto a quell’attacco improvviso, ma Udrien sta già danzando, anche se è rimasto immobile fino a quel momento. Il guerriero segue la scia della belva, ruota il corpo, scarta di lato e riprende posizione. Può tentare un colpo al fianco, ma preferisce non rischiare per adesso. La canzone è solo all’inizio.
Di nuovo faccia a faccia. Guardare il muso di quella belva è quasi una sofferenza, ma negli occhi risiede l’intento. Anche le creature più stupide nascondono qualcosa nello sguardo. Udrien appoggia il peso del suo corpo su una gamba. È pronto ad attaccare per primo. La bestia fa un passo indietro. Forse è infastidita. Forse per la prima volta conosce qualcosa che si chiama paura.
La paura è sorella e puttana. Questo usa dire Udrien ai suoi commilitoni, nelle serate balorde alla taverna del drago. Non ci si può fidare della paura, ma a volte è proprio lei che ti salva la pelle. E come una sorella ti rimane accanto anche se non la vuoi. E come una puttana, ti chiede il prezzo quando meno te lo aspetti.
Il colpo è una finta, un battito sincopato nel ritmo. La bestia ci crede, scarta e rilancia dall’altro lato. Mossa azzardata. Udrien l’aspetta al varco, ruota la lama, sente la dura pellaccia resistere al filo, imprime più forza e finalmente un fiotto di sangue scuro sprizza nell’aria polverosa. Nel silenzio asfissiante del deserto, rotto solo dai movimenti dei due contendenti, un urlo straziante si alza nel cielo. La bestia è ferita, e adesso è cento volte più pericolosa.
Udrien questo lo sa bene, ma non può evitarlo. La creatura è troppo grossa per poter essere uccisa con un solo colpo. Quello è il momento della svolta, la melodia che si velocizza, il ritmo che tormenta. Ma se fosse riuscito ad infierire un altro colpo, la creatura avrebbe smesso di crederci. Avrebbe sentito il morso della paura, quello vero, quello che non ti lascia scampo.
Il guerriero deve continuare a danzare leggiadro. Anche se ha il vantaggio non deve infierire. La fretta è la più grande nemica. Indietreggia con agili passi mentre la belva si muove nervosa verso di lui. Un affondo, un altro affondo, zampe, artigli, fauci bavose. “La senti la canzone?” domanda Udrien al suo antagonista. Ma lui non può capire, è ferito, è arrabbiato, e poi deve fare i conti con quella strana sensazione…
La stanchezza affiora. Un’intera giornata di marcia attraverso il deserto è tutta nelle sue gambe, e sono loro la chiave di un buon combattimento. Sente che la danza non può proseguire per molto a quel ritmo. Sente che la fretta, come la paura, può essere puttana e sorella. Sente che ha un solo colpo a disposizione, e deve essere quello giusto.
La belva ha riacquistato fiducia. Non pensa alla ferita, non pensa alla morte, pensa solo allo stomaco che le impone di andare avanti, un pasto dopo l’altro. Nessun ideale, nessun motivo onorevole, o forse si. Cibo, ecco quello che siamo. Guerrieri e bestie.
Il sole si tinge di arancione. I picchi delle montagne gli sono poco più sotto e il disco si prepara ad affogare dietro quella dentatura. Presto sul deserto cadrà l’oscurità, e forse creature ancora più pericolose lasceranno le loro tane. Un altro buon motivo per non denigrare la fretta.
Le zanne si fanno più vicine, il miasma dalla sua bocca diventa insopportabile, le gambe incominciano a tremare. Per quanto tempo Udrien riuscirà ancora a sopportare un simile sforzo? Continua a retrocedere, un passo dopo l’altro, ma sta perdendo centimetri. La creatura è su di lui. La canzone è un rullio di tamburi e un apoteosi di corni. Ma nel momento chiave, una singola nota può decidere la grandezza della sinfonia.
Udrien affonda. Non porta il suo attacco come un selvaggio barbaro del nord, ma come il direttore di una grande orchestra. Il bersaglio è ovviamente il cuore. La punta di Gilda penetra con facilità, strappando la carne, spaccando la costola, immergendosi senza pietà dentro al muscolo pulsante.
La creatura si accascia nella polvere del deserto, geme, rantola, si dimena. È il triste finale della canzone.
Allora Udrien le si avvicina, poggia il piede sul suo grugno mostruoso e alza la spada in segno di vittoria. Poi le sussurra: “Povera bestia, non sapevi chi ti stava davanti. Il mio nome è Udrien!”

GM Willo 2009

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