martedì 16 aprile 2013

PICCOLA FAVOLA SULLA LIBERTÀ


di GM Willo

Un corvo, nero come le notti d’inverno, osò affacciarsi alla finestra di un negozio che vendeva uccelli. Era la fame che lo aveva spinto così vicino agli affari degli uomini. Per un po’ se ne stette ad osservare i grassi pennuti che si sbafavano, al riparo delle loro gabbie, ciotole stracolme di semi, semini e grani prelibati. Un pappagallo con le piume verdi come il muschio e una cresta porporina, vide il corvo rinsecchito che lo guardava con un occhio spiritato (perché gliene mancava uno), e per poco non gli andò di traverso un grosso chicco di granturco. Passata la paura, grazie soprattutto alle sbarre della gabbia che lo proteggevano, si schiarì la voce e disse: – Oh, guardate quel povero uccello. Certo, è libero di volare, di planare e di gracchiare, ma si vola, si plana e si gracchia male quando la fame ci attanaglia la pancia!
Un altro pappagallo, con piume lunghe e rosse come i tramonti settembrini, aggiunse: – Eh già! Se ne affacciano tanti come te, pochi corvi a dire il vero, ma tanti piccioni e anche qualche gabbiano. Ve ne state tutti lassù alla finestra a guardarci mangiare, invidiando la nostra fortuna. La disperazione vi si può leggere sul becco! Noi qui all’asciutto, con tutto questo ben di dio, ed il gentile zio Fernando che ci pulisce la gabbia ogni due giorni. Una vita di lusso…
Da un’altra gabbia si alzò la voce cinguettante di una canarina, tra tutte la più vanitosa: – E poi guarda le nostre piume come sono lisce e robuste, merito del cibo che ci danno e di questa bella stanza temperata, non come voi, poverini, che vi tocca a mangiare quel che trovate per terra e a starvene al riparo sotto le grondaie e sugli alberi.
Poi fu la volta di un signor usignolo, tutto impettito perché si credeva un uccello importante. – Inoltre, se permettete, qui nessuno litiga mai. Ognuno ha la sua gabbia ed è contento. Magari a volte succedono dei battibecchi, ma nessuno si fa male. Invece mi hanno detto che là fuori ve le date di santa ragione, anche per un misero tocco di pane. Che creature sfortunate!
Il corvo, che se ne stava appollaiato alla finestra con la pancia che gli brontolava dalla fame, non ne poteva più di tutti qui petulanti cinguettii. Gracchiò qualcosa in corvesco antico che nessuno capì e prese il volo. Mentre raggiungeva il suo albero preferito, ripensò a tutte le cose che quegli uccelli nelle gabbie gli avevano detto. Per un momento vacillò, complice la disperazione arrecata dalla fame, e incominciò a dubitare della grandezza della libertà. Eppure lui, forse più di ogni altro della sua specie, era un vero spirito libero. Stava pensando col suo cervello o con la sua pancia?
Poi finalmente raggiunse il suo albero, una grande quercia che dominava la città. Si appollaiò sul ramo più alto e si guardò in giro. “Eccolo!” e si buttò in picchiata verso il verme che si era affacciato dal terreno, piccolo ma abbastanza gustoso da far zittire per un po’ la pancia brontolona e far tornare il buon umore al nostro amico corvo.


Tratta dal libro: Favole dal paese senza eroi

martedì 18 ottobre 2011

LIMBO: Il Libro


Una ragazza incaricata dal padre morente di proteggere il medaglione sacro della sua famiglia. Un aspirante cavaliere guidato da uno strano sogno. Un apprendista mago desideroso di apprendere misteri che il suo maestro non vuole o non può rivelargli. Le vite di questi tre giovani verranno stravolte da alcuni strani eventi che non riusciranno a capire del tutto. Esistono davvero gli Elenty, i primigeni capaci di usare la magia? Torneranno le antiche città sommerse? Ma soprattutto, che cos'è per davvero Limbo?

A distanza di cinque anni dalla prima bozza di Limbo, ecco finalmente l'opera compiuta presentata nella sua interezza. Si tratta di un romanzo di circa 200 pagine più alcuni racconti ambientati nello stesso scenario e una serie di appendici che costituiscono l'ossatura del mondo in cui si muovono i protagonisti di queste storie. Il progetto si è evoluto ed arenato più volte nel corso degli anni. In principio avrei voluto farne un gioco di ruolo, poi è subentrata l'idea del romanzo che ho interrotto però dopo un centinaio di pagine. Mesi dopo è nata l'intuizione del libro-blog, attraverso il quale ho potuto presentare, settimana dopo settimana, tutti i contenuti di questo avvincente progetto.

Nelle ultime settimane ho avuto modo di riorganizzare e correggere tutto il materiale a disposizione e confezionare così un prodotto che vuole, nella sua forma di libro, presentare nel maniera più esplicita ed ufficiale questa esperienza narrativa che ho definito, spero non in errore, cyberfantasy.

È possibile scaricare gratuitamente la versione definitiva di Limbo in forma di PDF a questo link oppure acquistare una copia cartacea alla pagina di Lulu.

Ringrazio come al solito Charles Huxley per le illustrazioni presenti nel libro e per la copertina.

Leggi Limbo online

Acquistalo qui

DETTAGLI

Limbo - di GM Willo (Creative Commons, Attribuzione-Impegno a condividere 2.0)
Prima edizione
Edizioni Willoworld
Pubblicato settembre 12, 2011
Pagine 268

Rilegatura Copertina morbida con rilegatura accurata
Inchiostro contenuto Bianco e nero
Dimensioni (cm) 15.2 larghezza × 22.9 altezza

FONTE: Edizioni Willoworld

lunedì 27 dicembre 2010

EROE PER SCOMMESSA

I

L’urlo di battaglia della salamandra gigante squarciò il silenzio opprimente di quella notte senza luna. Il fuoco si era ridotto ad un letto di tiepida brace e non c’era tempo per raccogliere nuova legna. D’altronde mancava poco all’alba e con la nascita del sole le infernali creature della notte si sarebbero ritirate nelle loro tane. Ma la belva era vicina, troppo vicina…
Numeon aveva dato la sua parola, ovvero tutto quello che gli era rimasto. Non si aspettava il perdono, ma non era quello che voleva. La regina lo odiava, i templari lo cercavano perché era risaputo che praticasse la magia nera, più c’erano una decina di vecchi amici o nemici che avrebbero pagato diverse corone d’oro per vedere la sua testa infilzata al palo più alto della città. L’uomo sorrise ripesando a uno di questi, un certo Viggo. Gli doveva un mucchio di soldi per colpa di una scommessa andata male. Anche a lui aveva dato la sua parola, quando un coltello gli aveva per poco mozzato il lobo di un orecchio, ma le promesse di gioco d’azzardo lasciano il tempo che trovano, si sa. Quella che Numeon aveva fatto alla regina Aliana era una promessa vera, fatta col cuore e con le viscere, per quello che potevano valere le sue viscere. Meglio annaffiarle, pensò, ed afferrò la borraccia di Yoka, il liquore di erbe dei nani, bevendone un lungo sorso. La salamandra urlò di nuovo e questa volta poteva benissimo trovarsi dietro il boschetto di faggi oltre il quale si trovava la via maestra, quella che portava alla capitale. Numeon guardò il ragazzo che dormiva accanto al fuoco. L’ultimo urlo lo aveva fatto agitare. Cosa c’era di così importante in quel ragazzo, si chiese per l’ennesima volta, ma scacciò il pensiero e bevve un altro sorso.
Trovarlo era stato più difficile di quanto avesse creduto. Gli uomini di Gudran il Cieco erano penetrati nel castello il primo giorno di luna nuova, si erano fatti strada attraverso i corridoi silenziosi della magione di Aliana uccidendo otto guardie. La missione era stata armoniosa, pulita. Quando le cameriere avevano dato l’allarme i rapitori erano ormai lontani. Aliana era montata su tutte le furie. Un’intera guarnigione di guardie a protezione del castello e del prezioso ospite era stata ingannata da un pugno di briganti. Numeon conosceva molto bene gli sgherri di Gudran. In fondo, fino a due anni prima, era stato uno di loro… Ma aveva chiuso con quella storia. Gudran conosceva molti segreti e questo era l’unico motivo per cui si era avvicinato alla gilda. Gli erano bastati tre mesi per mettersi in mostra e guadagnare la fiducia dello stregone orbo. Alla prima occasione si era poi intrufolato nella sua biblioteca segreta e aveva velocemente copiato gli incantesimi più potenti della sua collezione. Il mattino dopo era già lontano, e la gilda di Gudran faceva ormai parte del suo passato.
Due ore dopo il rapimento del giovane straniero venuto dal nord, la voce già circolava nelle buie celle del castello dove Numeon attendeva pazientemente la sua sentenza. Riconobbe l’occasione e non se la fece scappare. Prima riuscì a convincere una sentinella a far recapitare un messaggio al capitano della guarnigione, che aveva appena ricevuto una sgridata dalla regina per via del rapimento. Vedendo un’opportunità per farsi perdonare, il capitano aveva poi passato il messaggio direttamente ad Aliana. “Abbiamo un prigioniero che potrebbe conoscere il luogo in cui è stato portato il ragazzo. Il suo nome è Numeon e vorrebbe parlare con voi, vostra altezza”. Che faccia deve aver fatto la regina quando il capitano aveva pronunciato il suo nome, pensò Numeon alzandosi in piedi. Il ragazzo aveva aperto gli occhi e lo stava osservando.
- Non parlare – disse lui sottovoce. Poi si mosse rapidamente in direzione del bosco di faggi, un’ombra ammantata di nero con un ampio cappello a tesa larga. Numeon era un mago ma sapeva che a volte, contro certe creature, la magia poteva non bastare. Allora si affidava al suo moschetto, un’arma costosa, figlia del progresso, che molti guerrieri snobbavano per questioni etiche. A lui invece piaceva. Premere il grilletto, sprigionare il fuoco, era una specie di magia. Si sentiva al sicuro con il suo fucile in mano.
La salamandra dava loro la caccia da almeno tre giorni. Numeon ne aveva sentito l’odore quando erano scesi dalle montagne in cui si trovava il rifugio degli uomini di Gudran. Aveva sperato di riuscire ad evitare lo scontro, ma quella era una creatura ostinata e di sicuro molto affamata. Il giorno seguente avrebbero avvistato la città e sarebbero stati in salvo, ma ormai si era avvicinata troppo. Sul terreno aperto dove si trovavano, alla salamandra sarebbero bastati due balzi per agguantarli e trasformarli in una prelibata cena. Numeon sapeva che con esseri come le salamandre giganti la migliore difesa era l’attacco. Doveva sorprenderla prima che lei sorprendesse loro.
La belva gridò nuovamente, poi si udirono dei rami spezzarsi. La salamandra si stava aprendo la strada attraverso il bosco. Numeon si appressò al limitare di questo, piantò saldamente i piedi per terra e puntò il moschetto in direzione della selva oscura. Non poté trattenersi dal sorridere, ripensando alla breve ma intensa conversazione che aveva avuto con la regina. Il tempo non era stato suo nemico. Era ancora molto bella. Ricordava bene l’ultima volta che si erano incontrati, quindici anni prima. Entrambi frequentavano la scuola di magia della capitale. Lei aveva appena sedici anni, lui era all’ultimo anno e ne avrebbe compiuti presto venti. Iniziò per una scommessa, come tante altre volte. La principessa Aliana frequentava i corsi di divinazione, ma a sera tornava al castello, mentre di giorno era seguita a vista da due guardie del corpo. Numeon distrasse le guardie con un semplice incantesimo e riuscì ad incontrarla da sola sulla terrazza più alta della scuola. Gli bastarono dieci minuti per irretirla con parole mielate e convincerla a dargli un bacio. Il giorno dopo fu lei a cercarlo, ma lui era già perduto dietro le sottane di Nina, una ragazza appena arrivata dal sud del paese. Eppure negli anni a seguire si scoprì più volte a pensare alla principessa.
“Il capitano mi ha riferito che sai dove si trova il covo di Gudran”. Gli occhi della donna lampeggiavano d’ira.
“Beh, non proprio…”
“Mettiamo subito in chiaro una cosa. Se sei qui per farci perdere del tempo, allora risolverò immediatamente la tua questione. Mi hanno detto che sei colpevole di furto ed uso improprio della magia all’interno della città. C’è poi l’aggravante della falsa testimonianza, quindi io credo che dieci anni di prigione potrebbero andare. Guardie…”
“Ma no, sua maestà… io volevo dire… certo che so dove si trovano gli uomini di Gudran…” la ragazza era cresciuta, su questo non c’erano dubbi, pensò Numeon. E così aveva promesso, e questa volta la promessa valeva molto di più di quelle che era solito fare alle altre donne. Avrebbe riportato al castello il ragazzo rapito, a qualunque costo. E il costo poteva essere la sua vita, pensò mentre due occhi lampeggianti di fuoco si accendevano tra le ombre della selva. Pazienza, si disse, e richiamò la magia del mimetismo. La belva l’avrebbe visto solo all’ultimo momento, quando lui l’avrebbe finalmente avuta a tiro.
Un alberello al limitare del bosco venne tranciato di netto dai letali artigli della creatura. Ricoperta di squame ramate, lunga quasi dieci braccia, la bestia si mosse guizzante nonostante la mole. Gli occhi cremisi fissavano l’oscurità, ma Numeon, pur sapendo che la magia lo nascondeva alla sua vista, si sentì quello sguardo addosso. Il dito sul grilletto del moschetto s’irrigidì. La salamandra era a venti metri, poi con un guizzo dimezzò la distanza. Una sola possibilità. Un solo colpo. Avvertì l’alito fetido delle sue fauci, udì il sibilo della sua lingua biforcuta. Cinque metri. Tre metri. Poi un’esplosione…
La carica di piombo centrò in pieno il lungo muso della bestia che urlando balzò all’indietro. Ancora viva ma in preda ad atroci sofferenze, la salamandra strisciò in maniera convulsa verso l’invisibile nemico. Numeon si era già ritirato di molti metri e preparava l’incantesimo che avrebbe liberato la bestia da quel vortice di dolore. E mentre sbatteva ripetutamente il corpo gibboso e la coda gommosa per terra, la creatura urlava di disperazione, e qualcuno da lontano la udì e la notte successiva non riuscì a chiudere occhio. Il mago rimase calmo, consapevole del fatto che anche se cieca, la salamandra poteva ancora scovarlo grazie al suo fiuto. Questa volta richiamò il fuoco magico, lo manipolò tra le mani come un pezzo d’argilla, ne fece una sfera di luce rossa e poi la liberò nell’aria. La palla di fuoco descrisse un arco preciso e ricadde sul corpo della belva che avvampò, si dimenò ancora per qualche istante e poi si accasciò sull’erba continuando a bruciare.
Numeon tornò indietro e vide il ragazzo a pochi metri, gli occhi che riflettevano il rogo vicino.
- Raccatta le tue cose. É meglio allontanarsi da tutto questo fumo. Potrebbe essere velenoso… – Il ragazzo annuì e in silenzio seguì il mago. Insieme aggirarono il luogo dello scontro e ripresero la via maestra proprio nel momento in cui il sole incominciava a rischiarare il cielo ad oriente.
Procedettero speditamente per quasi un’ora e nessuno proferì parola. Dietro di loro, nella distanza, il rigolo di fumo velenoso che si alzava dalla creatura era ormai indistinguibile. Numeon, che decideva il passo di marcia, rallentò l’andatura, poi rassicurò il ragazzo. – Nessuno ci insegue, possiamo procedere a passo regolare… – e aggiunse, – Vedrai che arriveremo in tempo per il banchetto della regina. – ma dubitava che Aliana, nonostante la promessa mantenuta, lo avrebbe invitato alla sua tavola.

II.

Un messaggero a cavallo avvistò Numeon e il ragazzo a un paio di leghe dalla città e andò loro incontro. Il mago spiegò all’uomo le ragioni della sua missione e questi fece subito dietrofront, dirigendosi verso il palazzo della regina Aliana, per annunciare il loro imminente arrivo. Quando i due scavalcarono l’ultima collina, videro in lontananza gli stendardi sopra le mura della capitale, e una folla che li attendeva nei pressi della porta principale.
Numeon aveva provato nuovamente a scoprire qualcosa di più sul giovane, ma non era riuscito ad apprendere più di quello che già sapeva. Il ragazzo ignorava il motivo per cui la regina era così interessata a lui. Era solo il figlio di un contadino del nord, con un unico nome, Symion, e con una storia di pecore, campi coltivati a grano e feste mondane. La regina e il suo seguito erano giunti all’inizio dell’estate al villaggio in cui abitava. Aliana aveva parlato ai suoi genitori in privato e il giorno dopo tutto era stato deciso; Symion l’avrebbe seguita al castello. Davanti ad una richiesta tale il ragazzo non avrebbe mai potuto tirarsi indietro, così, senza fare domande, aveva lasciato il villaggio. Ma anche a lui sarebbe piaciuto sapere qualcosa di più sulle ragioni che avevano spinto la regina a visitare la sua casa. Gli era stato semplicemente detto che era un ragazzo speciale, e che al castello avrebbe imparato le maniere della gente nobile e l’arte della spada. Il suo apprendistato era appena incominciato quando gli uomini di Gudran lo avevano rapito. L’unico particolare che distingueva Symion era un segno sulla pelle, all’altezza della scapola, una specie di voglia a forma di ancora, ma talmente scura da assomigliare a un tatuaggio. Numeon l’aveva intravisto il giorno prima, quando si erano fermati presso un ruscello per rinfrescarsi. Il ragazzo si era tolto la veste polverosa e al mago non era sfuggito il piccolo disegno scuro sulla cute.
- Hai chiesto alla regina se il suo interesse per te aveva qualcosa a che fare con la macchia che porti sulla schiena? – chiese Numeon, sapendo di avere ormai poco tempo per risolvere quell’enigma.
- Si, l’ho fatto, – rispose il ragazzo – ma lei mi ha assicurato che non c’entra.
- Qualcosa però deve averti pur detto… – incalzò il mago. Symion scosse lentamente la testa e non rispose. C’era qualcosa di strano in quel ragazzo, Numeon l’aveva intuito subito. Di solito i giovani sono sempre avventati, curiosi, parlano di continuo oppure si chiudono in un silenzio ribelle. Sono vivaci, testardi, sfuggenti. Anche lui era stato così. Symeon invece non era niente di tutto ciò. I suoi sguardi, i suoi gesti, le sue poche parole, trasmettevano una sensazione di distacco. Non diceva mai più di quello che era necessario, e poi la paura sembrava essergli aliena. La vista della salamandra non l’aveva minimamente turbato, e quando Numeon lo aveva trovato nella cella del covo di Gudran, era rimasto impassibile. Il mago era ormai certo di una cosa; nonostante Symeon ignorasse il motivo per cui la regina lo aveva adottato, quella macchia che portava sulla schiena doveva essere per forza la chiave. Se fosse riuscito a scoprire il suo significato, il mistero dietro la presenza di quel ragazzo al castello sarebbe stato svelato. Ormai era diventata una sfida, come una delle tante scommesse da taverna che era solito fare con gli avventori.
Una schiera di cavalieri cinturava la folla che attendeva alle porte della città. Tra i riflessi delle lance e delle armature, Numeon riuscì a distinguere la portantina reale, ma non la regina che sicuramente vi sedeva all’interno, dietro le spesse tende di velluto cremisi. Un’accoglienza del genere non se l’era aspettata. La parte più vanitosa di sé si crogiolò all’idea di un’entrata trionfale, ma il sospetto s’insinuò improvvisamente nella sua mente, richiamato da un sesto senso nascosto, un amico che più di una volta gli aveva salvato la pelle. C’era qualcosa di strano in quella messinscena. Di colpo un formicolio alla nuca, proprio sotto il cappello, lo avvertì che non poteva fidarsi della regina.
Dalla prima linea di cavalieri si staccarono quattro elementi che vennero loro incontro. Era un rituale di benvenuto, sicuramente, eppure qualcosa non tornava. In meno di cinque minuti li avrebbero raggiunti. Numeon doveva decidere in fretta. Si guardò intorno. Gli uomini stavano già risalendo la collina. Su entrambi i lati della via maestra i campi erano coltivati a vitigni, ma a destra questi si interrompevano laddove incominciava un boschetto di tigli. Poteva raggiungerlo in meno di un minuto di corsa, e poi sparire tra la vegetazione, con l’aiuto di un buon incantesimo.
- Caro Symion, mi ha fatto molto piacere conoscerti. Credo che sia meglio che me ne vada. Non amo molto le manifestazioni di gratitudine. Sai com’è, mi mettono a disagio… – Il ragazzo lo guardò perplesso, ma lo stupore gli passò in fretta, come se avesse capito tutto.
- Beh, grazie mille. Spero di poterla rivedere, un giorno.
- Certo ragazzo. Porta i miei saluti alla regina, e fai attenzione. Potrei non esserci la prossima volta che ti cacci nei guai. – Poi si calzò meglio il cappello in testa e prese a correre per il campo di viti. Non ebbe bisogno di voltarsi per sapere che i quattro cavalieri erano scattati al galoppo. Raggiunse il boschetto e si fermò un attimo per riprendere fiato. Riuscì nella distanza ad intravedere una certa agitazione intorno alla portantina della regina. Numeon sorrise, poi guardò in direzione dei cavalieri. Stavano per raggiungere il ragazzo. Troppo lenti…
Il mago iniziò a risalire la collina attraverso un sentiero. Pronunciò un incantesimo che lo nascose anche alla vista degli animali del bosco. La promessa era stata mantenuta, ma lui e la regina non erano pari. Lei gli doveva ancora molte spiegazioni.

III.

Oltrepassare di nascosto le porte della capitale durante la notte era sempre stato un gioco da ragazzi. Numeon ne aveva avuti in passato di motivi per non farsi sorprendere dalle guardie reali, ma con l’aiuto delle tenebre e di un buon incantesimo, nessuna sentinella avrebbe mai potuto scorgerlo, almeno fino a quella notte. La regina aveva ordinato di triplicare gli uomini alle porte e il consiglio cittadino aveva subito avallato la procedura. Erano diventate rare le occasioni in cui i venti consiglieri si opponevano alle richieste di Aliana. Quella sera, neanche un calabrone sarebbe potuto entrare in città senza essere notato, un bel problema per il mago che non vedeva l’ora di trovarsi faccia a faccia con donna che lo aveva ingannato.
Era rimasto nascosto per tutto il giorno sulla chioma di un albero, ad osservare tranquillamente i cavalieri sguinzagliati dalla regina, che si aggiravano confusi nei pressi del boschetto in cui il mago era svanito. L’incantesimo lo aveva nascosto alla loro vista, ma i soldati avevano continuato a cercarlo per tutto il pomeriggio, imprecando sagacemente contro di lui ma anche contro la prima cittadina. Numeon si era dovuto più volte trattenere dal ridere. Se Aliana avesse saputo che cosa pensavano i suoi fedeli cavalieri del suo bel didietro, sarebbe corsa ad infilare la testa dentro la serra del castello, proprio come uno struzzo.
Prima del tramonto un uomo a cavallo aveva raggiunto il boschetto e richiamato la pattuglia in esplorazione, menzionando anche le ultime disposizioni ordinate dal consiglio cittadino sul controllo delle porte della città. Gli uomini avevano fatto ritorno alla capitale e Numeon era finalmente sceso dal suo nascondiglio per raggiungere i margini del bosco. Gli era bastato un sguardo per rendersi conto della situazione; se voleva entrare in città, doveva trovare un’altra via. E quella via esisteva, anche se dal punto di vista economico non era certo la strada più conveniente.
Si mosse veloce attraverso la collina, un’ombra tra le ombre sotto il cielo limpido, sul quale splendeva una falce sottilissima di luna. In fondo alla valle riuscì a scorgere le luci di una fattoria. Vi era un recinto con dei cavalli ed una stalla, e mentre vi passava vicino fece attenzione a non disturbare gli animali. Un nitrito avrebbe attirato l’attenzione, e le porte della città non erano molto distanti da lì. Conquistò il portico della casa del fattore, l’unico edificio illuminato della zona, si sistemò meglio il cappello in testa, bussò piano e attese. La notte era tiepida, ma il calore del fuoco e magari un buon bicchiere di vino non avrebbero certo guastato.
- Chi diavolo è a quest’ora? – domandò una voce grossa, con un forte accento del sud.
- Mastro Jarod? Apri, sono io…
- Che mi venga un colpo – disse il fattore, armeggiando con il catenaccio. La porta si aprì e la luce di una lanterna si accese in faccia al mago. – Numeon, lo stregone pistolero! Dammi un buon motivo per il quale non dovrei subito andare a chiamare le guardie? – chiese l’uomo, scostandosi dall’uscio per fare entrare il suo ospite. La casa di Jarod era composta da una grande stanza centrale nella quale ardeva un allegro fuoco. Una porticina su un angolo dava sulla dispensa, mentre al piano di sopra c’erano le camere da letto. Sotto invece c’era la cantina.
- Ho bisogno del tuo aiuto. – Numeon andò subito al sodo. Si sedette al tavolo di quercia in mezzo alla stanza e indicò la brocca che stava al centro. – Posso? – chiese.
- Certo, ti porto una tazza… – rispose Jarod, muovendosi verso una madia piena di stoviglie. – Ecco qua – e gli porse la coppa. Il mago la riempì di vino fino all’orlo e la svuotò in due grandi sorsi, poi se ne riempì un’altra.
- Il tuo vino è il migliore del paese, lo sai vero?
- Si, me lo hai detto più di una volta, ma non ti servirà a tirare sul prezzo. Hai bisogno di un passaggio, non è vero? – il contadino aveva intuito fin da subito il motivo di quella visita inattesa.
- Jarod, non posso pagarti adesso. Devi fidarti di me e farmi entrare nella città.
- Fidarmi di te? Questa è buona!
- È una questione importante!
- Non ne dubito, pistolero, ma gli affari sono affari…
- Domani mattina sono qua a saldare il debito, a costo di vendermi il cappello!
Era un cappello magico, anche se nessuno sapeva come funzionasse, e in effetti poteva valere molte corone d’oro. Numeon lo aveva vinto a dadi da un viaggiatore ubriaco, che poi gli si era rivoltato contro con degli incantesimi che nessuno aveva mai visto da quelle parti. La taverna era letteralmente esplosa, ma Numeon era stato abile ad estrarre il suo moschetto, mirarlo alla testa dell’uomo e fare fuoco. Era successo tre anni prima, e da quel giorno Numeon non si era mai separato da quel cappello. Neanche lui sapeva come farlo funzionare, però diceva che gli portava fortuna, e a lui questo bastava.
- Mi hai dato un’idea – propose il contadino. – Perché non mi lasci il cappello in pegno. Domattina torni a riprenderlo, che ne dici?
- No, mai! – replicò secco il mago, scattando in piedi.
- Abbassa la voce. Mia moglie e i bimbi dormono al piano di sopra… – spiegò Jarod, indicando con un dito il soffitto.
- Scusami, ma no, non posso lasciarti il cappello. È il mio portafortuna…
- Allora mi dispiace, niente passaggio. – E detto ciò, ripose la brocca di vino su uno scaffale e si avviò verso la porta. – Dovrai trovare un altro modo per entrare in città.
- Va bene – disse Numeon accigliato. – Maledetto te…
- Ottimo allora… vogliamo andare? – chiese mastro Jarod, aprendo la porta di casa e facendo strada. Numeon si alzò dal tavolo e lo seguì sul retro dell’abitazione. Non era la prima volta che usava il tunnel di Jarod. Il contadino se ne serviva per contrabbandare in città i suoi distillati. Il consiglio, pressato dalla regina, aveva infatti proibito qualsiasi bevanda più forte della birra e del vino, per evitare risse ed incidenti nelle taverne e per le strade della capitale. Ma il mercato del brandy di contrabbando era un affare molto redditizio e Jarod vi ci si era buttato a capofitto, investendo nella costruzione di un tunnel che dalla sua cantina raggiungeva quella di una vecchia bettola di periferia, il Corvo Stridulo, passando naturalmente sotto le mura della città. Le casse di brandy venivano messe in una carriola appesa ad una corda, e grazie ad un sistema di cuscinetti e carrucole, veniva tirata da una parte e dall’altra.
- Attento a dove metti i piedi – avvertì il fattore che precedeva Numeon attraverso una stretta rampa di scalini che scendevano verso una massiccia porta di legno. Jarod chiese al suo ospite di tenere la lanterna ed estrasse una grossa chiave da sotto il grembiule che aveva indosso. Girò tre mandate ed entrarono in un ampio locale tappezzato di piastrelle di terracotta. Era un ambiente decisamente ben tenuto, che stonava con il resto della fattoria. Quello era il luogo in cui Jarod preparava i suoi distillati e portava avanti i suoi affari. La stanza era occupata da botti e da strumenti sconosciuti a Numeon. D’altra parte al mago interessava più il prodotto finito che il processo di estrazione del liquore.
- Com’è venuto quest’anno? – chiese, indicando una botte di rovere.
- Assaggia tu stesso – rispose Jarod, aprendo il piccolo rubinetto in fondo al contenitore. Versò appena un dito di liquore dorato dentro un piccolo bicchiere di cristallo, e lo porse al suo ospite. Numeon lo bevve d’un fiato e strizzò gli occhi.
- Meraviglioso! – esclamò
- Non ne trovi migliori di questo, neanche nelle terre di confine – puntualizzò il contadino.
- Ci credo… – Poi entrambi si diressero dalla parte opposta della cantina, laddove si apriva uno stretto passaggio ad arco che sprofondava nelle tenebre. Oltre quello la luce della lanterna illuminò un locale più piccolo, di appena tre metri di lato. Alle pareti non c’erano piastrelle ma solo terra battuta, ed un cunicolo di appena un metro di diametro si perdeva nel buio più fitto.
- Devo richiamare la carriola, – spiegò Jarod. Avvicinò un bastoncino allo stoppino della lanterna e lo inserì nel pertugio di una specie di scatola di metallo, poi azionò la leva di quello strano marchingegno. Si udì una vampata e un cigolio. La fune che si perdeva dentro al tunnel e alla quale era attaccata la carriola incominciò a scorrere da sola.
- Cos’è quello? – domandò il mago.
- Beh, tirare avanti e indietro questo arnese mi stava spezzando la schiena, così ho fatto progettare da un amico questa macchina. Funziona ad olio, proprio come le lanterne. Sono secoli che i nani usano questa tecnologia, ma sono molto gelosi delle loro cose, almeno che tu non li sappia convincere… – spiegò Jarod sorridendo. Numeon immaginò che quell’aggeggio dovesse essere costato un occhio della testa, ma Jarod non badava a spese per la sua piccola impresa.
Dopo una decina di minuti la carriola apparve. Il viaggio non era certo dei più comodi, ma Numeon non aveva alternative. S’infilò dentro e attese di essere trascinato nelle viscere della terra, fin sotto le mura della capitale.
- Cosa aspetti allora? – chiese il mago con noncuranza. Jarod sorrise ed indicò il cappello che stava ancora sulla testa del mago.
- Oh, già… scusami, – esclamò Numeon, sfilandosi il suo portafortuna e porgendolo al contadino. Si sentì improvvisamente denudato di qualcosa. Forse era proprio quello il potere nascosto dell’oggetto. Era davvero un potente amuleto portafortuna. Una strana sensazione lo afferrò all’altezza dello stomaco. Non doveva andare, non senza il cappello.
Combattuto da un terribile senso di indecisione, Numeon non si accorse che Jarod aveva azionato nuovamente la leva. – Buon viaggio allora, – si sentì dire.
- Aspetta… – provò a replicare il mago, ma era troppo tardi. La carriola si stava già muovendo dentro le viscere della terra.

IV.

Dall’altra parte del tunnel Numeon trovò il garzone dell’osteria, per niente sorpreso della sua apparizione. Era poco più di un bambino, vestito di stracci e decisamente poco pulito. Il suo compito era quella di stare di guardia al cunicolo sotterraneo e alla porta dalla quale si accedeva alla cantina del Corvo Stridulo. Il mago udì distintamente il vocio degli avventori al piano di sopra, che a quell’ora dovevano aver abbondantemente occupato tutti i tavoli della taverna.
- Buonasera signore, Lion è qui per servirla – dichiarò il ragazzo, mettendo mano al mazzo di chiavi che aveva legato alla cintura. Mentre armeggiava col chiavistello della porta, continuò – Se al signore serve qualche cosa di particolare; un posto per la notte, una bottiglia di Yoka, o magari un po’ di compagnia…
- Grazie, sono a posto – tagliò corto Numeon, ed infilò la porta appena questa si aprì, raggiunse la scala che portava al piano di sopra e si confuse con la gente che ordinava da bere. L’aria pesante da taverna gli riempì i polmoni e lo fece sentire subito più tranquillo, anche senza il suo cappello. Quell’aria l’aveva respirata fin dal giorno in cui aveva smesso di farsi la pipì addosso. Suo padre era stato un cercatore d’oro, aveva viaggiato molto ma non aveva avuto fortuna. Con le poche pepite racimolate in anni di ricerca, aveva deciso di fermarsi e mettere su famiglia. Aveva comprato una taverna e aveva fatto l’oste fino alla fine dei suoi giorni, che non furono neanche tanti. Pace all’anima sua, pensò Numeon. Comunque lui c’era nato dentro quella taverna, e ogni volta che si sentiva circondato dal profumo dello stufato che veniva dalle cucine, mischiato all’odore delle botti di birra e del tabacco da pipa, gli pareva di essere a casa. Una voce nella testa gli disse di restare, di ordinare una birra, di mettersi comodo, di non immischiarsi negli affari di palazzo. In fondo che cosa c’aveva da guadagnare lui. Il mistero del ragazzo aveva probabilmente a che vedere con le questioni di sangue della famiglia reale. Forse era un figlio bastardo del vecchio re, e di conseguenza fratellastro della regina. Ci aveva già pensato a questa eventualità, però qualcosa gli diceva che c’era di più. Ma non era stata questa la scintilla che lo aveva spinto ad entrare nella capitale di soppiatto, la notte in cui l’intera guardia reale gli stava dando la caccia. La questione del ragazzo era qualcosa di secondario ormai. Numeon non sopportava l’affronto di Aliana. Lo aveva usato per recuperare il ragazzo, ben sapendo che non esistevano in città maghi più esperti di lui, e poi aveva sguinzagliato i suoi cavalieri per riportarlo nelle celle del castello. Lui aveva rispettato i patti mentre lei lo aveva ingannato, e questo a Numeon non andava giù. Chi si credeva di essere quella ragazzina, pensava mentre si faceva largo tra i commensali. No, avrebbe chiuso la questione quella notte, era ormai diventata una scommessa con se stesso.
A malincuore si lasciò la taverna alle spalle. Cercò di calzarsi il cappello per evitare che il vento che si era alzato glielo portasse via, ma si accorse a malincuore di non avercelo più. Guardò in alto e annusò il vento che nel frattempo aveva portato le nubi del nord. Quella notte una tempesta si sarebbe abbattuta sulla capitale, la poteva sentire nell’aria. Si diresse deciso verso la biblioteca, che a quell’ora era già chiusa, ma quello sarebbe stato l’ultimo dei suoi problemi. Entrare e uscire dai luoghi chiusi era una delle sue specialità. Facendo attenzione a non essere notato, scavalcò il cancello del giardino della scuola di magia, la stessa dove sia lui che Aliana avevano ricevuto i diplomi di divinatori, e attraversò con ampie falcate il viale alberato che divideva in due la struttura; da una parte vi era la scuola, un largo edificio con una torre centrale, dall’altra la grande biblioteca cittadina, una massiccia struttura in pietra edificata almeno un secolo prima della scuola. Le sue finestre erano basse e prive di inferriate. Grazie a un semplice incantesimo fece girare la maniglia di una vetrata e con un salto penetrò all’interno dell’edifico. Adesso però veniva la parte più difficile. Non erano i libri che occupavano gli scaffali del piano terra e di quelli superiori che destavano il suo interesse. Si trattava perlopiù di testi di scuola, scienze divinatorie, storia delle pratiche occulte e così via. I tomi antichi, quelli in cui dormivano i segreti dell’antico impero, erano nascosti al piano inferiore, nei sotterranei della biblioteca. C’era stato soltanto una volta, per concessione di un vecchio professore che lo aveva preso in simpatia. La porta per accedervi era una larga pietra circolare che per traslare di lato aveva bisogno delle giuste parole. Non un semplice incantesimo che probabilmente Numeon avrebbe saputo aggirare, ma un codice segreto decretato dalla regina. Il mago credeva di sapere quale erano le parole. Tutta la missione che si era prefissato dipendeva da quell’intuizione. Se esisteva una risposta al mistero del ragazzo, doveva per forza trovarsi nei sotterranei della biblioteca.
Trovò facilmente le scale che scendevano al livello inferiore. L’ultima volta che era entrato in quell’edifico era poco più di un ragazzo, ma poteva contare su una memoria visiva eccezionale. Fino alla rampa era riuscito a vedere grazie alla luce dei lampioni della strada che entravano dalle finestre dell’edificio, ma oltre i primi gradini le tenebre diventavano quasi solide. Numeon accarezzò delicatamente la canna del suo moschetto, sussurrando qualche parola. Il nero ferro dell’arma incominciò ad emanare un lieve chiarore che dissipò le ombre. Velocemente il mago scese la rampa e procedette deciso lungo un ampio corridoio alla fine del quale si trovava l’accesso alle biblioteca segreta.
L’ora della verità, pensò sorridendo. Con la mano cercò la falda del cappello, un gesto portafortuna, ma rimase nuovamente ingannato. “O tutto o niente” si disse a bassa voce, poi enunciò le parole segrete che aveva pensato: “Ailes Ihao Tairnan”. La Lingua Morta, quella che di solito veniva usata per codici e formule segrete, non era mai stata il suo forte. Sperava che la pronuncia fosse quella giusta. Il significato di quelle parole era invece fin troppo chiaro “L’antico sangue scorre”.
Non successe nulla. Numeon provò alcune varianti della frase, invertendo l’ordine delle parole, ma niente fece muovere la grossa pietra. La frase apparteneva alla famiglia di Aliana da secoli. Discendeva direttamente da una delle due grandi dinastie dell’Impero, la famiglia Senyan. Ai nobili piaceva ricordare i vecchi tempi, i fasti dei grandi palazzi reali e i costosi ornamenti dei templi dedicati agli dei, mentre la memoria della sofferenza inferta ai più deboli andava col tempo svanendo. La parola di quelle generazioni che avevano vissuto di persona le violenze dei vecchi governanti, si era indebolita nei cuori dei loro discendenti. Il popolo rincominciava a cantare le gesta dei grandi eroi del passato, Eonosse dall’elmo dorato, che usava cavalcare in testa al grande esercito che con la forza sottomise tutte le province, l’altissima sacerdotessa Cleati, vestita di perle e lamine argentate, chiamata anche la “Bocca degli Dei”, il principe Audar, bello come il sole e forte come un cavallo. Ma la verità era ben diversa da come la presentavano i menestrelli di taverna. Per secoli le due famiglie reali avevano schiacciato il popolo con le tasse e con la forza, solo per soddisfare i loro meschini bisogni. Certo, si cantavano anche le gesta di Sanildor il rivoluzionario, colui che iniziò la rivolta contro le due famiglie, grazie soprattutto a quella parte dei Senyan che stava col popolo e voleva cambiare le cose. Senza l’aiuto del trisnonno di Aliana, Womil Assarris, Sanildor ed i suoi non sarebbero mai riusciti a dare scacco alle due famiglie reali. Fu così che la famiglia di Aliana andò al potere, un ruolo più di facciata che altro. Il sistema si confece alle necessità del popolo. Fu istituito un governo composto da venti consiglieri eletti dalle gente, e il ruolo della famiglia regnante divenne marginale. Le province riunite sotto l’impero tornarono ad autogestirsi come avevano fatto per secoli prima che le due famiglie reali le conquistassero. Ci furono delle scaramucce, ma il popolo incominciò a vivere molto più dignitosamente. Malgrado ciò, già dopo un paio di generazioni, il potere della famiglia Assarris crebbe. I consiglieri del mandato di re Ilfor, padre di Aliana, pendevano tutti dalle sue labbra. Ilfor era un uomo fiero, ma non cattivo. La gente lo amava e gli avrebbe concesso tutto, ma lui non si fece corrompere da tali adulazioni. Però le cose potevano sempre degenerare, e la giovane Aliana non sembrava avere la stessa forza del padre. Prima o poi il popolo, lo stesso che aveva sofferto sotto il piede dei nobili dell’impero, avrebbe riconsegnato il potere sovrano nelle mani di un’unica persona.
Numeon pensò a tutte queste cose, nella disperata ricerca di una formula che potesse aprire quella porta. Provò svariati codici ma niente sembrò funzionare. Era stato avventato e anche un poco ingenuo. Aveva rischiato la libertà per nulla, e adesso doveva anche un monte di soldi a mastro Jarod. E tutto a causa di un ragazzo che nascondeva qualche mistero… il ragazzo, ma certo… “Itarcya Winae”, disse sottovoce; “Il Segno dell’Ancora”. La pietra si mosse senza produrre alcun rumore. L’aria viziata della biblioteca segreta investì il mago che arricciò il naso. Numeon si mosse veloce alla ricerca di ciò che voleva, i simboli delle due grandi casate. La stanza era un semplice allargamento del corridoio, le cui pareti erano ricoperte di libri, protetti dentro scaffalature in noce munite di ante a vetri. Aiutandosi con la luce magica che brillava freddamente sulla canna del suo fucile, Numeon scorse velocemente i titoli dei tomi, fino a fermarsi poco oltre la metà del loculo. “Eccolo”, sibilò. Poi aprì lo sportello della libreria ed afferrò un grosso volume con una copertina chiara. Lesse con avidità le prime pagine, poi andò avanti, cercando con destrezza, come solo un mago sapeva fare. Metà della sua vita l’aveva passata nelle taverne, ma l’altra metà era rimasto piegato sui libri. Un sorriso gli si aprì come un taglio sulla faccia. “Allora è questo che cerchi, bambina…” sussurrò, riferendosi ovviamente alla regina.
Poi udì dei rumori distinti che venivano da sopra e con un gesto spense la luce, sprofondando in un’oscurità solida.

V.

- Chi va là? – chiese una voce da oltre la porta. Numeon intravedeva la luce di una lanterna e l’ombra indistinta che la reggeva. La sua mente lavorava alla massima velocità, ma le sue membra rimanevano immobili, il libro tra le mani, il respiro sospeso.
- Chiunque vi sia, dovrà fare i conti con la guardia reale… – disse la voce, e subito dopo pronunciò al contrario le parole segrete che avevano aperto l’accesso alla biblioteca sotterranea. La pietra si mosse nascondendo lentamente l’ombra con la lanterna in mano. Numeon lasciò cadere il libro e si precipitò verso l’uscita, infilandosi con un salto disperato tra la pietra rotante e lo stipite della porta. Con una spallata fece perdere l’equilibrio al guardiano che cadde imprecando sul duro pavimento. La lanterna andò in frantumi ma fortunatamente lo stoppino si spense prima di incendiare l’olio che si era sparso per terra. Nelle tenebre del corridoio, Numeon allungò la mano sul volto del guardiano, mosse impercettibilmente le labbra e compose un incantesimo. L’uomo provò a reclamare, ma l’effetto della magia lo fece crollare da una parte e sprofondare in un sonno incantato.
Numeon adesso aveva i minuti contati. In meno di un’ora l’uomo si sarebbe svegliato e avrebbe dato l’allarme, ma un’ora forse sarebbe bastata a fare quello che si era prefissato. Uscì dalla biblioteca e oltrepassò il vialone alberato dal quale era sopraggiunto. Agile come un felino, scavalcò il cancello e imboccò la strada per il palazzo reale. Non si mise a correre per non attirare l’attenzione, usò vie secondarie tenendo sempre la testa e le mani basse. Il moschetto era ben nascosto sotto il mantello. Quindici minuti più tardi aveva raggiunto l’entrata del parco che circondava il castello della regina. Un altro cancello, ancora più alto di quello della biblioteca. Il mago dovette attingere alle sue conoscenze magiche per oltrepassarlo senza fare rumore, ed evitare di rimanere infilzato sulle sue punte. Il parco era un giardino botanico che vantava almeno duecento specie di piante. Era il vanto della famiglia reale e dei cittadini della capitale. Numeon sgusciò sotto le fronde di un albero dalle enormi foglie, per poi retrocedere tempestivamente davanti ad una Lindoria, una pianta carnivora capace di divorare un uomo in meno di dieci minuti. Non si fece prendere dal panico e continuò nella direzione in cui pensava si trovasse il castello. La vegetazione occultava la vista, e le tenebre erano quasi solide, ma Numeon aveva sempre avuto un ottimo senso dell’orientamento. Finalmente scorse le luci delle torce che bruciavano appese ai lati del ponte levatoio. La notte il ponte rimaneva sempre chiuso ed era così che si trovava anche in quell’occasione. Un altro problema da risolvere, pensò Numeon, ma non si lasciò scoraggiare. Il palazzo era circondato da un profondo fossato e non sembrava avere altri accessi, ma Numeon sospettava che ci fossero delle grate per ventilare i sotterranei, o almeno lo sperava.
Vi erano due guardie che facevano la ronda attorno al castello. Il mago raggiunse il bordo del fossato nel momento in cui una delle due uscì dalla sua visuale, mentre l’altra doveva ancora svoltare l’angolo. Una manciata di secondi appena gli furono sufficienti a conquistare la posizione che voleva. Scivolò silenziosamente nell’acqua, che gli arrivava poco sopra il petto, ed iniziò a guadare il canale. L’odore nauseabondo dell’acqua stagnante mischiata agli scarichi dei pitali era a dir poco insopportabile, ma Numoen si era trovato in situazioni peggiori di quella. Per evitare che l’acqua inceppasse il moschetto, teneva la sua arma sopra la testa. Le guardie non potevano vederlo perché il fossato era ammantato di ombre. Dall’altro lato vi era una banchina larga meno di un metro che girava intorno all’edificio. Numeon iniziò a percorrerla facendo attenzione a non farsi scoprire.
Trovò subito ciò che cercava, un cancello di ferro chiuso da un pesante lucchetto. Afferrò con entrambe le mani il catenaccio arrotolato intorno all’inferriata, chiuse gli occhi e sussurrò qualche parola. Nei suoi palmi sentì il metallo cedere con uno schiocco. Rapidamente, ma sempre senza far rumore, oltrepassò il cancello imboccando l’oscuro corridoio dei sotterranei del palazzo. Preferì avanzare al buio che rischiare di accendere una luce incantata. Intuì dall’intenso odore di formaggi stagionati, che doveva trovarsi vicino alle dispense del castello. Il corridoio terminava davanti ad una porta di legno da sotto la quale proveniva un filo di luce. Numeon accostò l’orecchio alla porta ma non percepì alcun suono. Con cautela girò la maniglia ed entrò in un ampia stanza, illuminata fiocamente da una torcia appesa a una parete. Era in effetti la dispensa del castello. Sacchi di iuta ricolmi di noci e castagne, botti di vino e di birra, salumi e prosciutti appesi al soffitto e un’ampia scaffalatura occupata da svariate forme di formaggi. A Numeon venne l’acquolina in bocca.
Nella tenue luminescenza il mago riuscì a muoversi più velocemente. Imboccò una rampa di scale che saliva al piano di sopra, percorrendo gli scalini con la delicatezza di un gatto. Conosceva solo una parte del palazzo, quella riserbata alle prigioni, e il percorso che aveva fatto in compagnia delle guardie quando lo avevano portato al cospetto della regina. Il castello era una costruzione massiccia, la più grande di tutta la città. Al tempo dell’impero l-intero edificio era di proprietà della famiglia reale, ma adesso i primi due piani erano al servizio degli enti cittadini. Solo il terzo ed ultimo piano era riserbato alla famiglia reggente, ed era lassù che si trovavano gli appartamenti di Aliana e dove, presumibilmente, si trovava la camera da letto del ragazzo.
Raggiunse le cucine e proseguì sicuro oltre un corridoio che immetteva nella mensa delle guardie. La trovò vuota, ma sentì dei rumori provenire da oltre una porta. Intuiva che durante la notte almeno una decina di guardie rimanessero regolarmente dentro al castello, ma dopo l’incursione dei briganti, la regina doveva aver come minimo raddoppiato quel numero.
Aveva un piano, e come tutti i piani non era esente da rischi. Volutamente ribaltò una delle sedie della mensa, che cadendo sul pavimento piastrellato provocò un tonfo secco che rimbombò nella stanza. Numeon si appiattì dietro un armadio pieno di stoviglie, mentre il chiacchierio delle guardie si interrompeva. La porta venne aperta e due figure fecero il loro ingresso nella mensa.
- Chi va là? – chiese una di queste. Numeon attese paziente che i due si chiudessero la porta alle spalle.
- Forse era un gatto… – suggerì l’altra guardia.
- Meglio andare a vedere nelle cucine… – Poi i due chiusero la porta e attraversarono la sala. Numeon, appena li ebbe entrambi nella sua visuale, lanciò loro un incantesimo di sonno, l’ultimo che gli era rimasto. I suoi poteri, come quelli di ogni mago, erano limitati.
I corpi dei due uomini si afflosciarono al suolo come delle vesti vuote. Subito il mago li trascinò fuori dalla mensa, oltre il corridoio fino alle cucine. Qui si sfilò gli indumenti ancora bagnati ed indossò quelli della guardia che calzavano meglio. Poi, concentrandosi sul volto dormiente dell’uomo, prese le sue sembianze. Era un incantesimo complesso che poteva avere anche alcune fastidiose ripercussioni. Una volta si era slogato malamente la mascella e ci era voluto un mese perché il dolore se ne andasse.
Grazie a quel travestimento, uscì dalla mensa e si trovò nell’atrio del castello, quello dove si trovava la rampa di scale che portava ai piani superiori. Due guardie gli andarono incontro.
- Ehi Audar, dove è andato Uilair?
- Doveva svuotare la vescica – rispose prontamente il mago, intuendo che Uilair doveva essere il nome di una delle due guardie che adesso dormivano beatamente nelle cucine.
Numeon attese che i due si dileguassero in un corridoio laterale ed imboccò la scalinata che portava al piano di sopra. Anche se travestito da guardia, salì lentamente ed in silenzio per evitare di dare nell’occhio. Due soldati di ronda al piano superiore passarono vicino alla rampa ma non lo scorsero. Il mago conquistò la seconda scalinata e si avviò verso gli appartamenti della regina. Un piccolo manipolo di uomini sostava sul pianerottolo del secondo piano, di guardia agli appartamenti reali. Cinque uomini in totale, tre dei quali giocavano a carte attorno a un tavolino, mentre gli altri due montavano rigorosamente la guardia ai lati della porta che immetteva nel salone delle udienze. Un soldato con i gradi di capitano si girò verso l’uomo che saliva le scale.
- Audar, c’è qualcosa che non va? – chiese, lasciando le sue carte coperte sul tavolo.
- Sto cercando Uilair, il mio compagno di ronda. Mi ha detto che andava alle latrine ma non riesco più a trovarlo. Pensavo fosse qui… – Rispose Numeon, coprendo con passi lenti e precisi la distanza tra lui e il tavolino.
- No, qui non si è visto – disse il capitano con un’alzata di spalle. Poi riafferrò le carte e tornò a giocare, o almeno quella fu la sua intenzione. Le sue membra si tesero appena sentì il freddo metallo del moschetto di Numeon toccargli la nuca. Il mago lo aveva estratto da sotto la divisa così rapidamente che nessuna delle guardie ebbe il tempo di reagire.
- Dite solo una parola e faccio esplodere la testa del vostro capitano – sibilò tra i denti il mago. Un silenzio carico di tensione nelle sale del castello. Numeon sentì una goccia di sudore colargli da una tempia. “In che guaio mi sono cacciato”, si sorprese a pensare, poi tornò a concentrarsi sui volti delle guardie, sulla porta che dava accesso alle stanze di Aliana e sul grilletto del moschetto su cui era appoggiato il suo indice. Queste furono le ultime tre cose che riuscì a ricordare al suo risveglio, perché il colpo alla testa che lo sorprese da dietro e lo fece stramazzare al suolo non riuscì proprio a sentirlo.
Fuori intanto un tuono annunciò l’arrivo della tempesta.

VI.

Numeon si svegliò il giorno dopo nella sua cella, quella adatta ai maghi, con le pietre venate d’argento magico per impedire ai prigionieri di usare incantesimi. Era la stessa che aveva lasciato qualche giorno prima e che sperava vivamente di non rivedere più. Nel momento in cui aveva perso i sensi, l’incantesimo di metamorfosi aveva smesso di fare effetto e il mago aveva ripreso le sue vere sembianze. La testa di Numeon pulsava di un dolore acuto. Si toccò la nuca e sentì sulle dita il rilievo del sangue raggrumato. Che stupido che era stato, pensò mentre i ricordi della sera prima gli tornavano in mente. Era tornato al punto di partenza, ma questa volta poteva benissimo passarci il resto della vita in quel buco, o chissà, forse la regina aveva qualcos’altro in mente per lui. La pena di morte era stata abolita con la caduta dell’impero, ma visto come andavano le cose potevano sempre ripristinarla. Cercò di non pensarci, anche perché non giovava certo al suo mal di testa. Si rannicchiò nell’angolo dove un mucchio di paglia gli faceva da giaciglio e attese in silenzio che qualcuno lo venisse a trovare.
Il clangore del metallo sul metallo lo ridestò da un sogno inquieto. Non volente, si era riaddormentato, e una guardia era venuta a svegliarlo battendo con fragore l’elsa della sua spada sulle sbarre della prigione.
- Prigioniero, alzati e sii pronto ad eseguire l’inchino. La regina è qui per vederti – annunciò l’uomo. Il mago alzò la testa ma rimase immobile. Un attimo dopo Aliana apparve, piccola ma fiera, nella sua veste regale color cremisi. Erano il portamento e lo sguardo che la identificavano indubbiamente come una regina, e Numeon quando la vide non poté fare a meno di riconoscerlo. Alcune persone nascono per ripiegare ruoli importanti, ma il potere bisogna saperlo controllare, che tu sia un guerriero dai muscoli d’acciaio, un pericoloso divinatore o un discendente di una famiglia importante. In quel momento Numeon non lesse negli occhi di Aliana il desiderio di saper controllare la grande influenza che aveva sugli uomini. Lesse invece una cosa che non gli piacque per nulla; bramosia di potere.
La regina chiese alla guarda di lasciarla da sola con il prigioniero e rapida ubbidì. Numeon rimaneva a sedere sul pagliericcio, la schiena poggiata alla parete della cella e il volto rivolto verso il muro di fronte. Aliana poteva notare un leggero sorriso dipingergli la faccia.
- Hai poco da sorridere, mago – disse lei con voce asciutta.
- Sei sempre stata una bambina viziata… – rispose lui, e non ebbe bisogno di guardarla per sapere che la sua faccia si era colorata di rosso.
- Sei fortunato che non ci sia più un boia in città, ma non illuderti. Potrebbe sempre tornare…
- Il ragazzo… è un discendente dei Lanred, vero?
La famiglia Lanred era stata la prima dinastia dell’Impero, mentre la famiglia Senyan, dalla quale discendeva anche Aliana, era stata la seconda in ordine di importanza. Insieme avevano per secoli governato sul continente, con la forza della spada, della magia e del sangue. Era stato soprattutto questo terzo elemento il segreto del loro incontrastato predominio. Attraverso i secoli la gente aveva incominciato a credere che nelle due famiglie scorresse il sangue degli dei. Questa credenza persisteva ancora, ed era proprio grazie a questa che Aliana avrebbe, insieme al discendente dei Lanred, riunito tutte le province del continente in un nuovo grande impero. Questa era la ragione del suo interesse per il giovane Symion.
- Il ragazzo è solo un ragazzo – rispose cripticamente Aliana.
- Ha il simbolo dell’ancora sulla scapola, il segno di riconoscimento della dinastia, come voi Senyan avete il cerchio all’altezza del cuore. Io non so se siano stati davvero gli dei a farvi quei segni, ma so che grazie a questa leggenda le vostre due famiglie hanno ridotto in schiavitù intere popolazioni. Forse quei segni ve li siete fatti da soli, o forse gli dei hanno gusti strani. A me non importa sapere l’origine del vostro sangue, a me preme soltanto la libertà del popolo.
- Ah, il mago dal cuore nobile – lo schernì di rimando la regina. – Da quando in qua Numeon il pistolero ha a cuore gli interessi del popolo? Ti sei trasformato in un rivoluzionario da un giorno a un altro? Aspiri forse a diventare un secondo Sanildor? Beh, mi dispiace deludere le tue aspirazioni, ma credo che per i prossimi vent’anni te ne starai buono in questa cella. E poi che cosa credi di sapere tu del popolo. Il popolo vive solo per sentirsi raccontare le gesta dei grandi eroi. È questo quello che vuole il popolo; idoli da venerare, una nobiltà nella quale potersi immedesimare, parate, tornei, feste. Il popolo vuole essere intrattenuto, non gli interessa altro. Non ti sei accorto che il malcontento affligge ormai ogni comare della città, che gli uomini trovano sollievo solo nei boccali di birra e nelle caraffe di vino? La gente esige nuove leggende, nuove conquiste e grandi uomini nei quali riporre la loro fede…
Aliana andò avanti nel suo monologo per un tempo che Numeon non riuscì a definire. Lui aveva smesso di ascoltarla. Rimase immobile nella sua cella con un sorriso di scherno stampato sul volto. Pensava a come uscire, al suo cappello che adesso si trovava nella fattoria di mastro Jarod, al cavallo che avrebbe rubato per raggiungere le coste orientali del continente, e al vascello che lo averebbe portato lontano, su un’isola tropicale che un vecchio pirata gli aveva descritto. “Laggiù le donne non indossano praticamente nulla, e stanno dalla mattina alla sera a danzare sulla spiaggia, e gli uomini arrostiscono grossi pesci e cantano alle stelle”. Si, era laggiù che sarebbe andato, una volta fuggito dal quel buco.

EPILOGO

Elien, la figlia di Jarod, sentì bussare alla porta. Chi sarà mai a quest’ora, pensò. Era quasi il tramonto e con il buio arrivava anche il coprifuoco, secondo le ultime disposizioni di re Symion e della regina Aliana. Per evitare spiacevoli incidenti, la famiglia reale aveva ordinato che tutte le persone prive di autorizzazione rimanessero chiuse nelle loro case fino all’alba. Un bel guaio per le taverne, che erano costrette a chiudere molto prima del previsto, ma per il bene di tutta la comunità Elien pensava che fosse giusto così. Almeno adesso suo marito evitava di andarsi a ubriacare insieme ai suoi amici al Corvo Stridulo.
Le cose erano cambiate da quando le due grandi famiglie reali si erano ritrovate, e di sicuro erano cambiate in meglio. Certo, le tasse erano più alte, ma almeno si poteva andare al mercato senza la paura di essere derubati. C’erano sempre un mucchio di guardie alle porte della città e sulle strade principali, e lei si sentiva molto più tranquilla di quando da bambina suo padre la portava con il carretto a fare le consegne alle taverne. Ma suo padre era un tipo avventato e poco giudizioso. Sua madre glielo diceva che quella distilleria alla quale ci teneva tanto lo avrebbe messo nei guai, e infatti un giorno le guardie erano venute a portarlo via, lui e suo fratello maggiore Cran, che lo aiutava nelle consegne.
Ma dopotutto era meglio così. Adesso era lei che tirava avanti la fattoria, insieme al marito che si occupava del vigneto. Sua madre ormai era vecchia e non poteva più occuparsi degli animali, ma presto lei le avrebbe dato un nipotino e con l’imminente nascita tutto sarebbe stato perfetto. Elien non vedeva l’ora di portare la sua piccola, perché era sicurissima che sarebbe stata una femmina, a vedere la parata della regina, quella per il solstizio d’estate. Venivano i migliori cavalieri delle province. Sarebbe stato magnifico…
Mentre riordinava tutti questi pensieri, la donna si avviò alla porta per aprire. La madre era di sopra a riposare mentre il marito sarebbe rientrato dai campi da un momento all’altro.
- Chi è? – domandò la donna.
- Salve signora, mi scusi se la disturbo, – disse una voce dall’altro lato della porta. – Immagino che lei sia la figlia di mastro Jarod. Sono un vecchio amico di suo padre, il mio nome è Numeon, forse ve ne ha parlato.
Quel nome le mise una strana sensazione addosso. Rammentava qualcosa, ma era passato tanto di quel tempo… Comunque fece finta di non ricordare e aprì l’uscio. Davanti a lei vi era un uomo non giovane, con un accenno di barba grigia e un’ampia piazza sulla testa. Aveva occhi profondi e sofferenti, ma la sua bocca era disegnata in un sorriso carico di tepore. Lo fece accomodare al tavolo del soggiorno. Numeon notò che nonostante gli anni, la casa non era cambiata di molto. La donna gli offrì del vino e lui lo bevve con avidità, sempre sorridendo educatamente. Non era buono come ai vecchi tempi, ma a lui sembrò nettare degli dei. Erano venti anni che non lo toccava. Non lo passavano nelle prigioni della regina.
- Scusi ancora l’intrusione, ma vado di fretta e col coprifuoco è bene che mi allontani in fretta dalla città. Cercavo suo padre. Mi sa dire dove lo posso trovare? – chiese l’uomo, appoggiando la tazza vuota sul tavolo.
- Mi spiace ma mio padre non vive più qui. È stato arrestato. Sa, per via della distilleria…
- Capisco… – disse Numeon, abbassando la testa. – Ma forse può aiutarmi anche lei. Sto cercando un oggetto che lasciai qui una ventina di anni fa, un oggetto molto importante che di sicuro suo padre avrà tenuto di conto. Si tratta di un cappello nero, a tesa larga, come non se ne vedono da queste parti.
La donna ci pensò su un attimo, poi scosse la testa. – Non ricordo niente di un cappello. Se era importante me lo avrebbe detto, credo…
- Beh, forse gli è passato di mente. Vede, me lo ha tenuto in pegno per un favore che gli chiesi. Qui ci sono quindici monete. Dovrebbero bastare a coprire il favore, insieme a un po’ di interessi. – Il vecchio mago appoggiò sul tavolo un sacchetto di cuoio dentro il quale tintinnarono delle monete. L’atteggiamento della donna cambiò improvvisamente.
- Oh, ma sono sicura che se era un cappello importante mio padre lo avrà tenuto di conto. Mi faccia andare subito a vedere su nella vecchia cassapanca. Forse è lì da qualche parte. – Elien sparì veloce al piano di sopra e si mise a rovistare. Numeon si alzò dalla sedia e si versò un altra tazza di vino. Guardò fuori da una finestra, in direzione del vecchio vigneto di Jarod. Gli tornarono a mente dei ricordi dolorosi di un tempo che non era più. La prigione alla fine l’aveva avuta vinta ed era riuscita a piegarlo. Conservava ancora il sorriso, ma i suoi occhi sarebbero rimasti coperti da un velo di tristezza per il resto dei suoi giorni.
Aliana era riuscita nel suo intento. Aveva trasformato Symion in un cavaliere, lo aveva presentato al popolo come l’ultimo discendente della stirpe reale legata agli dei. Aveva scelto il momento opportuno per attuare il suo piano. Il popolo era piegato da una tremenda carestia dovuta ad un rigido inverno. Metà delle coltivazioni erano andate perdute e molti animali erano periti. La gente moriva di fame ed il consiglio dei venti non sapeva più che pesci prendere. Ci voleva un segno forte, qualcuno che prendesse in mano la situazione, oppure un miracolo, o solo una piccola ed insignificante parola di speranza. Aliana offrì al popolo tutto questo con il discendente della famiglia Lanred, il ragazzo divenuto uomo con il segno dell’ancora sulla scapola. Un matrimonio suggellò il tempo della rinascita. Il consiglio venne sciolto. Aliana rimase incinta ed ebbe due gemelli. Una nuova grande dinastia era nata, ed avrebbe regnato indisturbata su tutto il continente, nei secoli dei secoli.
Numeon sentì i passi della donna scendere i gradini della scala che portava al piano di sopra. Elien teneva in mano il suo cappello. – È questo? – chiese sorridendo.
Il mago si avvicinò alla donna e guardò meglio. – Si, è proprio lui.
- Ecco qua. È un po’ polveroso. Chissà quanto tempo è rimasto lassù.
- Venti anni, signora. Venti anni… – rispose Numeon, calzandosi come era solito fare da giovane quel suo bizzarro indumento. Subito un senso di tranquillità gli calò sul cuore, una sensazione di cui si era completamente dimenticato.
- Venti anni? Allora deve tenerci molto se è tornato a riprenderselo dopo così tanto tempo.
- È il mio cappello portafortuna – ammise lui, sorridendo. – La ringrazio molto, signora. Adesso devo scappare. Porti i miei saluti a mastro Jarod. Spero lo liberino presto…
- Non ci conti. E poi al vecchio gli fa bene rimuginare sui suoi errori – rispose acida lei. Numeon pensò bene di non aggiungere altro. Aprì la porta e con un cenno salutò la donna.
Il sole era ormai nascosto dietro la collina. C’era profumo di legna bruciata nell’aria, un odore che gli era sempre piaciuto. Gli ricordava la taverna di suo padre. Numeon risalì il rilievo e prese la via maestra nella direzione opposta alla città. Avrebbe camminato tutta la notte fino al secondo bivio, quello che lo avrebbe condotto sulla via est. Dieci giorni di viaggio fino al mare, poi si sarebbe imbarcato per le isole tropicali e avrebbe detto addio alla sua terra.
Perché esiste un tempo per fare gli eroi e un tempo per lasciare il mondo al suo destino, e Numeon, il mago pistolero, sapeva che era giunto il momento di lasciar perdere. “Laggiù le donne non indossano praticamente nulla, e stanno dalla mattina alla sera a danzare sulla spiaggia…”
- Isola mia, arrivo! – disse. Poi, calzandosi meglio il cappello, si rimise in cammino.

lunedì 20 settembre 2010

IL PRESAGIO DEL NERO OCCHIO


























L’oceano ed il cielo si fondevano in un orizzonte vago, tra gli ocra e gli indachi del vespro. La notte avanzava rivelando la magia della volta celeste, le canzoni delle stelle, le sinfonie delle galassie. Erano musiche che solo pochi riuscivano a sentire. Astromanti erano chiamati, e la gente normale li credeva stregoni e fattucchieri, portatori di speranza e di guai. Ma il mondo era troppo vecchio perché qualcuno potesse riuscire ad estirpare le paure del genere umano, radicate dentro secoli di guerre e di dolore. Il mondo era così vecchio che si era perso il conto degli anni. Si diceva che gli uomini erano morti e rinati più volte, che in un tempo indefinito il cielo era esploso sopra le più grandi città e ogni uomo era stato spazzato via, fuorché per una manciata di fortunati, o sfortunati, che erano riusciti a trovare rifugio nelle viscere della terra. Passarono molti anni prima che l’umanità tornasse ad abitare la superficie del pianeta, e la gioia di rivedere il sole e la volta stellata fu così tanta, che quegl’uomini dedicarono ogni loro energia a contemplare l’universo e a carpirne i segreti.
Ma sono molte le storie che riguardano gli Astromanti. Meno invece quelle che descrivono i loro più grandi rivali, gli Entropici. Anche quest’ultimi studiavano le stelle e attingevano potere dal cielo, ma non si fermarono alla conoscenza della materia e dell’antimateria, come invece fecero i primi. Affascinati dal concetto di caducità, studiarono il pulviscolo del cosmo e cospirarono l’accelerazione del tempo, così da far chiudere questo universo e dare modo a qualcosa, al di là del tempo e dello spazio, di riformarne uno nuovo, più giusto.
Gli Entropici erano convinti che gli uomini fossero creature imperfette, prigioniere di un universo imperfetto. Solo attraverso la chiusura del tempo l’uomo sarebbe rinato in una forma divina, in armonia con il tutto. L’apocalisse che avrebbe segnato l’avvento della nuova era veniva chiamata il Grande Collasso.
A questo pensava il giovane Braman, mentre contemplava il mare dall’alto del faro. Si era quasi scordato di accendere la luce di segnalazione. Era l’unico lavoro che gli spettava. Per il resto il suo apprendistato era essenzialmente fatto di studio e osservazione.
La scuola del faro non poteva davvero dirsi una scuola. Era composta da appena tre alunni più il maestro, un vecchio di nome Karmantic, cieco da un occhio eppure zoppo. Il maestro era un tipo strano, cresciuto in mezzo ai marinai del paese vicino, ed era lui stesso stato un marinaio quando era giovane. Ma il richiamo delle stelle fu tale che all’età di vent’anni partì alla volta di Avredon, una delle Dieci Città, per conoscere i misteri del cosmo e praticare la magia. Dopo la prima guerra contro gli Entropici Karmantic tornò al suo paese e divenne il guardiano del faro, fondò la piccola scuola per Astromanti e insegnò la magia delle stelle ai nuovi talenti della penisola meridionale del continente, una regione gibbosa e poco conosciuta che la gente delle Dieci Città chiamava “La Punta”.
La notte era infine sopraggiunta. I pensieri che vorticavano nella testa del giovane mago gli avevano fatto perdere il senso del tempo. Sentiva dabbasso i suoi due compagni prepararsi per l’abituale osservazione. Ogni sera insieme al maestro si recavano sulle vicine colline per contemplare la via lattea e ascoltare il canto delle nebulose. Doveva affrettarsi, altrimenti avrebbero fatto tardi e la luna sarebbe sorta, oscurando con la sua luce riflessa molti degli astri più interessanti osservabili in quel periodo dell’anno.
Ma proprio mentre voltava le spalle al mare e si accingeva a lasciare la terrazza del faro, una musica lontana, un clangore metallico sormontato da note talmente basse da non potersi quasi udire, lo trattenne. Alzò lo sguardo ma non riuscì a vedere niente, perché la luce di segnalazione era talmente forte che gli occhi potevano appena distinguere gli astri più luminosi.
C’era qualcosa di strano e sbagliato in quella musica. Braman aveva ascoltato molti canti del cielo, e mai si era imbattuto in suoni così aggressivi. Pensò di parlarne subito al maestro, ed era sul punto di scendere le scale, quando pensò che se quel suono fosse scomparso non sarebbe mai riuscito a capire da quale astro del cielo proveniva. Sapeva che era una cosa pericolosa che non avrebbe mai dovuto fare, ma qualcosa gli diceva che quella canzone nascondeva un pericolo molto più grande. E così smorzò la luce di segnalazione e in pochi secondi il faro si spense, richiamando l’oscurità attorno alla torre e alle scogliere del porto.
Gli occhi del giovane dovevano abituarsi al buio, ma non aveva molto tempo a disposizione. Qualcuno in paese stava già lamentandosi del faro che si era improvvisamente spento. Braman rimase con l’orecchio attaccato a quella canzone del cosmo, temendo di perderla.
Poi udì qualcuno sopraggiungere. Era il maestro, che saliva le scale aiutandosi con un bastone e domandava adirato spiegazioni. Ma Braman non poteva rispondergli. Doveva rimanere attaccato a quel suono, e poi cercare la sua fonte tra i miliardi di puntini luminosi che lentamente si rivelavano alle sue strette pupille accecate dalla troppa luce. Attinse alle poche conoscenze da Astromante che aveva a disposizione, chiuse gli occhi e seguì la fonte di quella musica, e quando si sentì chiamare da un preciso punto nel cosmo infinito, aprì le palpebre e proiettò la vista nell’abisso.
Il maestro apparve sul ciglio delle scale.
«Maestro Karmantic, laggiù! Che cosa c’è?» domandò il ragazzo col volto stranito. All’Astromante bastò uno sguardo, nella penombra della terrazza, per capire che Braman aveva udito un segnale.
«Il Nero Occhio… che cosa hai sentito, ragazzo?» La voce del vecchio era un sussurro carico tensione.
«Clangori metallici e un coro di voci basse…»
«La Sinfonia del Cattivo Presagio… mio dio… » Adesso anche il volto del maestro era diventato una maschera di apprensione.
«Che cosa significa?»
«Ragazzo, se hai davvero sentito quella sinfonia provenire dalle remote magioni del Nero Occhio, può significare una sola cosa; una nuova guerra è prossima…»
«Gli Entropici?»
«Si. Dobbiamo avvertire gli altri.»
Fu quello l’inizio del secondo terribile conflitto tra Astromanti ed Entropici, e solo per miracolo i secondi non riuscirono a portare a termine i loro piani. Numerosi Astromanti perirono e le scuole di magia rimasero chiuse per un’intera decade.
Molti anni dopo Braman tornò al faro. Nel frattempo era diventato uno dei più potenti maghi delle terre dal Grande Mare alla Breccia. Karmantic era morto e anche i suoi due compagni erano periti durante l’orribile guerra.
Rimase ad osservare il mare per diversi mesi, cercando di guarire la mente lesionata dalle atrocità viste durante la guerra. Non seppe perché era tornato fino al giorno in cui un bambino si presentò al suo cospetto. Avrà avuto non più di dieci anni, e due occhi profondi quanto lo spazio infinito.
«La notte in sogno le stelle mi vengono a trovare…» gli disse.
«Vieni, ragazzo. T’insegnerò a parlare con loro.»
Quel giorno Braman capì perché era tornato alla scuola del faro. Gli Entropici erano stati sconfitti ma non distrutti. Un giorno sarebbero tornati e alle nuove generazioni di Astromanti sarebbe toccato il compito di difendere le Dieci Città. Il suo dovere era quello di preparare i nuovi talenti, incominciando da quel piccolo sognatore di stelle.
«Come ti chiami?»
«Tielsin, signore.»
«Bel nome…»
«Grazie.»
E così si chiuse l´ennesimo cerchio di conoscenza.

sabato 28 agosto 2010

IL TRENO DI ALI'



C'era una volta un bambino di nome Alì che amava moltissimo i treni, e ogni tanto li vedeva passare dalla finestra di camera sua, una baita di legno che dava sulla valle e sul paesino vicino, dove c'era una piccola stazione di mattoni rossi. Si domandava dove fossero diretti e chi portassero, e se anche lui un giorno sarebbe montato su un treno che lo avrebbe condotto lontano.
Passarono gli anni e quel giorno arrivò. Alì salì su un treno tutto giallo che andava veloce e senza sbuffi. Attraversò la valle ed i verdi pascoli, aggirò le montagne e tagliò in due il paese, fino a che non raggiunse il mare. Là vi era un grande porto in cui vi era ormeggiata una barca con due enormi vele multicolori. Alì seppe nel momento in cui la vide che quella era la sua barca. Allora montò sopra e il capitano della nave, che si chiamava Augusto, gli dette il benvenuto e subito si preparò a mollare gli ormeggi.
La barca condusse Alì in mare aperto, e per molti giorni veleggiò col sole mattutino in faccia. Finalmente raggiunse un'isola, e su questa vi era una pista d'atterraggio, piccola e con un unico aeroplano. Alì seppe, nel momento in cui lo vide, che quel velivolo aspettava proprio lui. Il pilota gli fece un segno col capo e lo invitò a salire a bordo. Decollarono insieme nel cielo blu, si lasciarono l'isola alle spalle e andarono verso sud, dove l'aria era calda e la gente piena di allegria. Poi si diressero ancora ad oriente fino alla penisola di un continente lontano lontano. L'aereo atterrò vicino ad una rampa di lancio sulla quale una navetta spaziale era pronta per il decollo. Alì riconobbe subito lo shuttle e senza esitazione indossò una tuta spaziale e vi s'infilò dentro. Gli altoparlanti scandirono sonoramente il conto alla rovescia. Meno dieci, meno nove, meno otto, meno sette...
La navetta lasciò la Terra con una scia di fumo bianco, e viaggiò rapida attraverso il sistema solare, oltre Nettuno e Plutone, e poi raggiunse le prime stelle, più veloce della luce attraversò l'intera galassia, fino a che non trovò un pianeta piccolo piccolo con un letto a baldacchino, e quel pianeta era talmente minuto che non c'era posto che per quel letto. Alì seppe che quella era la sua meta. Azionò il comando di espulsione e, grazie ai reattori della sua tuta, raggiunse il piccolo pianeta. Ed era così stanco che, di fronte a quel letto, s'infilò subito sotto le coperte e appena chiuse gli occhi si addormentò.
Sognò di trovarsi al binario della stazione del suo paese, ad aspettare il suo treno...

venerdì 6 agosto 2010

IL GUERRIERO DORMIENTE

IL GUERRIERO DORMIENTE

dalle “Memorie di Udrien, il forgiatore di leggende”

Di notte, appena chiudo gli occhi, odo le urla della mia prima battaglia. In bocca mi torna il sapore della sabbia insanguinata, la pelle vibra al ricordo delle energie sprigionate dagli stregoni di entrambi gli schieramenti, e un’ombra si adagia sul mio cuore.
Avevo solo sedici anni ed era la prima volta che impugnavo una spada. Tre cavalieri arrivarono al villaggio in cui abitava la mia famiglia, mio padre, mia madre e la mia sorellina. Ci dissero che il paese era stato attaccato, che servivano nuovi soldati da mandare in battaglia. Noi non sapevamo niente degli affari del grande mondo. Coltivavamo patate e mungevamo vacche, e per intere decadi era sempre stato così. Ogni tanto un messaggero veniva ad informarci che un nuovo re sedeva sul trono, o che una nuova legge era stata introdotta, ma a nessuno importava, perché il villaggio era piccolo e le cose rimanevano sempre uguali.
Le guerre erano troppo lontane perché potessero preoccuparci. Non avevamo né un’autorità né un capovillaggio. Eravamo una ventina di famiglie che usavano ritrovarsi ad ogni quarto di luna per parlare dei raccolti e del bestiame. Il nostro era un paesello tranquillo, lo era sempre stato, almeno fino a quel giorno.
Mio padre era caduto dal tetto pochi giorni prima e si era fratturato un piede. Per questo motivo non lo presero. Ma il cavaliere con gli occhi azzurri e il mantello sporco di sangue puntò l’indice verso di me, che me ne stavo davanti alla stalla, con un forcone in mano e una balla di fieno per il cavallo. Mi disse: «Posa il forcone, ragazzo, e prendi questa spada.»
Ricordo di essermi mosso in automatico. Mia madre urlava disperata, mia sorella piangeva e mio padre, che si era trascinato con la stampella fuori dal letto, sputava ingiurie contro i cavalieri. Loro rimanevano impassibili, forse perché erano abituati a quelle scene.
Afferrai la spada che mi era stata consegnata e rimasi sorpreso perché, nonostante fosse piccola, pesava molto di più del forcone. Cosa avrei potuto farci io? Cosa si aspettavano da me? Sarei morto di sicuro…
Tutti questi pensieri mi attraversarono la testa, infrangendosi su qualcosa che era dentro di me e che ancora non conoscevo. L’avrei scoperta col tempo, battaglia dopo battaglia, dentro gli occhi dei miei più terribili avversari. Quella cosa non ha un nome, è come un muro solido ed insormontabile, che s’innalza davanti al cuore, lasciando fuori la paura.
Mi unii ad altri quindici uomini prelevati dal villaggio, che a testa bassa s’incamminarono dietro ai cavalieri, tutti certi di non fare più ritorno. Anch’io sentivo che non sarei tornato, eppure sapevo che non avrei trovato la morte nella battaglia che ci aspettava. Mentre camminavo tenevo la spada dritta di fronte ai miei occhi. La osservavo, la studiavo, memorizzando il contatto dei miei polpastrelli sull’impugnatura avvolta nel cuoio. Era come se mi avesse incantato. Alcuni dei contadini provavano dei fendenti, esibendosi in movimenti impacciati, improvvisando una rudimentale tecnica di difesa. Io invece cercavo di entrare nella spada. Era come se la sentissi chiamare il mio nome.
Qualcuno durante la marcia incominciò a fare delle domande ai cavalieri. Avevamo il diritto di sapere perché andavamo a morire, ma i tre davano risposte vaghe, e sembravano quasi più confusi di noi. Capii immediatamente che la speranza aveva abbandonato i loro cuori. L’esercito aveva subito gravi perdite e per questo si erano ridotti a reclutare i contadini. Al momento era in corso una tregua che sarebbe durata fino alla luna nuova, tre giorni più avanti, poi ci sarebbe stata la battaglia finale, sulle sconfinate praterie del nord.
In quei tre giorni non parlai con nessuno. Qualcuno pensò che non stessi bene, che lo shock di essere stato trascinato lontano da casa mi avesse tolto la parola. In verità parlavo, ma sottovoce, o forse solo nella mia testa. Parlavo a lei, la mia spada, e anche lei mi parlava, con una voce stridula, tagliente. A volte cantava, ed era bella la sua voce. Più spesso si lamentava. Chiedeva…
Era una semplice spada di ferro, con un’impugnatura grezza avvolta in un pezzo di cuoio consunto, un oggetto privo di valore, eppure per me era come un gioiello, anzi no… Era qualcosa di vivo, con un anima, un pensiero, uno scopo. Tre giorni dopo capii finalmente perché si lamentava. Quando trafissi il mio primo nemico la sentii urlare di gioia. Era quello che voleva. Era quello per cui esisteva. Il sangue…
Se vuoi sopravvivere in battaglia devi pensare solo a te stesso. Nella mischia la polvere si alza ben sopra la tua testa, la visuale si riduce a pochi metri, i cavalli mietono più vittime delle spade, e poi ci sono gli incantesimi, che a volte ti esplodono ai piedi o ti rimbalzano sulla schiena. La fortuna può valere molto di più di una buona tecnica.
Il segreto mi si dipanò nel momento stesso in cui fui circondato dal caos della battaglia: concentrazione e controllo del flusso adrenalinico. Piantato saldamente sulle mie gambe, potevo avvalermi di una discreta forza, grazie anche agli spossanti lavori nei campi. La spada incominciò subito a cantare nella mia testa, una vibrazione piacevolmente dolorosa che dalla mano con cui la impugnavo saliva fino al cuore. In quel momento sentii la presenza di una parte sopita di me, una forza complementare della quale ero sempre stato all’oscuro. La sentii perché in quel momento stava per risvegliarsi.
Un massiccio guerriero del nord dai lunghi capelli biondi, increspati di sangue e di sudore, si gettò verso di me. La sua armatura era imponente, fatta di scaglie di metallo e fasce di cuoio. Brandiva un’enorme ascia bipenne che roteava sapientemente sopra la sua testa. Dieci metri. Cinque metri. Due metri…
Non mossi neanche un dito fino all’ultimo istante, quello decisivo. Poi scartai di lato, evitando il fendente, e mi rialzai con l’agilità di un felino. Mi bastò uno sguardo per individuare il punto debole del mio avversario. Lasciai fare tutto alla spada. Ne seguii il canto. Lei s’infilzò con facilità nella parte interna del ginocchio del guerriero, tagliando nervi e tendini, dissetandosi come un bove lasciato nel recinto in un giorno assolato, mentre le urla del biondo soldato si mescolavano a quelle di mille altri.
Gli fui sopra con un balzo, lo guardai negli occhi, gli lessi la paura e ne fui incuriosito. Quella parte di me che aveva vissuto al villaggio per sedici anni, al fianco di un padre premuroso ed una madre gentile, mi tratteneva dall’affondo fatale, ma l’altra metà, quella nuova e appena risvegliata, voleva fare colazione. Fu lei a guidare la mia mano, e affondare la spada nella gola della mia vittima.
Un mercenario che combatteva al mio fianco mi vide e da quel momento non mi staccò più gli occhi di dosso. “Seguimi e farò di te il più grande guerriero delle terre del nord» mi disse, mentre falciava i nemici che ci si facevano sotto. Io rimasi accanto a lui per tutta la durata della battaglia, e fu così che riuscii a sopravvivere. Il nostro esercito venne sbaragliato, trovammo rifugio sulle montagne, io e lui da soli. Il giorno dopo iniziò l’addestramento. Il suo nome era Walkor, e per me fu molto più di un maestro.
Di notte, appena chiudo gli occhi, odo le urla della mia prima battaglia. In bocca mi torna il sapore della sabbia insanguinata, la pelle vibra al ricordo delle energie sprigionate dagli stregoni di entrambi gli schieramenti, e un’ombra si adagia sul mio cuore…
…è il ricordo di quella parte di me che non esiste più. Il ragazzo che si chiamava Jillian. Oggi è diventato un uomo e nel mondo è conosciuto con il nome di Udrien.

GM Willo

domenica 1 agosto 2010

L’UOMO DELLE MONTAGNE



La foresta non era sempre stata laggiù.
Ai tempi in cui la comunità dei Falconieri decise di stabilizzarsi nella Valle dei Canti, una larga striscia di terra ricca di alberi da frutto e ruscelli, vi era solo un paesaggio piatto ed incolore oltre la collina più alta, all’orizzonte del quale brillava violentemente un enorme sole azzurro.
Il padre di Diamond raccontava spesso di come un giorno di molti anni prima, salendo sulla collina per far volare il suo falco, aveva scoperto la grande foresta. Giunto in alto aveva guardato oltre la cresta e si era meravigliato davanti a quel mare ombroso di vegetazione che si estendeva fino a una lunga striscia di montagne dai picchi ameni e tinteggiati di bianco. Il sole azzurro doveva trovarsi oltre quella nuova catena montuosa, e il cielo riverberava di argento sopra quel paesaggio appena coniato. Questo era Limbo, un mondo in continuo cambiamento, dove le terre scivolavano via sotto i piedi degli uomini come il tempo sulle loro pelli.
Diamond aveva investito la carica di Cacciatore del Villaggio da qualche giorno, ma ancora non era mai uscito oltre la valle per il suo nuovo incarico. La foresta però la conosceva bene, perché per molti anni era stata il suo rifugio ed il suo posto speciale. Vi si recava quando la solitudine lo attanagliava, mettendo a nudo la sua scomoda condizione di giovane erede al Guanto Dorato di capo del villaggio. Era la carica che suo padre aveva in serbo per lui e non poteva rifiutarla.
Ereditare le responsabilità di una comunità intera non era cosa da poco. I Falconieri contavano oltre duecento elementi, compresi donne e bambini, e organizzare la prossima migrazione sarebbe stato il suo più grande compito, il compito di ogni capo delle decine di comunità nomadi di Limbo.
Quando il sole rosso che determina la fine del mondo fosse apparso all’orizzonte, sarebbe giunto di nuovo il tempo di migrare verso il sole azzurro, alla ricerca di una nuova terra sulla quale fondare il villaggio. Il pensiero di quella grossa responsabilità lo faceva spesso sentire solo nell’insicurezza di non sentirsi all’altezza di quell'incarico.
Mentre quei pensieri turbinavano nella sua mente, si ricordò del suo amico falco che cacciava sopra le alte chiome della foresta. Scrutò lo squarcio di cielo dalla radura nella quale era giunto ma non vi era traccia dell’uccello. Vide però del fumo librarsi dal fianco della montagna più vicina, segno inconfondibile della presenza di un viaggiatore poco avveduto. Era infatti risaputo che la catena montuosa oltre la Valle dei Canti era azzardata e priva di sentieri facili, e una leggenda parlava anche di uomo solitario e pericoloso che si aggirava con misteriosi intenti tra i boschi e le nevi perenni di quei rilievi. I Falconieri evitavano accuratamente le montagne, e i viaggiatori saggi sapevano che vi erano strade migliori per attraversare quel territorio.
Diamond chiamò il suo falco con tre acuti suoni del fischietto che teneva appeso al collo, una sequenza di note che era il tipico richiamo dei Falconieri. Attese qualche istante, mentre il silenzio della foresta lo sovrastava, e si guardò attorno, aspettandosi di veder sopraggiungere da un momento all’altro il suo amico alato. Ma non accadde niente.
Con l’agilità di uno scoiattolo il ragazzo incominciò ad arrampicarsi su un albero che sporgeva la chioma oltre il tetto della foresta, e giunto abbastanza in alto da poter gettare lo sguardo in ogni direzione, soffiò tutto il fiato che aveva nei polmoni dentro l’imboccatura del fischietto. Il falco però continuava a non rispondere al richiamo. Scrutando il cielo giallo sopra la foresta, Diamond si accorse che nessun uccello vi volteggiava, nessuna nuvola lo attraversava, e il sole era scomparso, fuso insieme al cielo stesso per dare vita a quell’intensa luminosità dorata.
Significava che si stava facendo tardi e che il quinto margine del giorno era passato da tempo. A casa i suoi genitori lo stavano già aspettando, ma non poteva tornarsene al villaggio senza il suo amico alato. Sarebbe stato un grande disonore per qualsiasi falconiere, figuriamoci per l’ereditario del Guanto Dorato.
Continuò a fischiare seduto sul ramo del gigantesco albero, sperando di scorgere un movimento, un segno della presenza del suo amico. Un grido squarciò il silenzio della foresta. Diamond sussultò e per poco non perse la presa che lo teneva aggrappato al ramo. Era sicuramente il richiamo del suo falco, e sembrava provenire dalla montagna, dove continuavano a librarsi nell’aria le nuvolette di fumo del bivacco del viandante. Con due agili salti Diamond atterrò sul sentiero e senza perdere tempo si diresse verso la montagna, verso il richiamo dell'uccello che presagiva un pericolo.
Giunto ai piedi dell’altura si accorse che la foresta continuava a ricoprire il terreno per quasi l’intero fianco della montagna, ma appena il sentiero incominciò a inerpicarsi tra le rocce e la vegetazione, questi si perse in una piccola radura priva di sbocco. Alzò gli occhi al cielo che perdeva lentamente il suo colore dorato per farsi scuro e buio. Adesso Diamond temeva di non riuscire a tornare a casa se l’imprevedibile notte di Limbo fosse sorta senza luna e senza stelle.
Usò nuovamente il fischietto nella speranza di un qualche risultato. Da quella radura poteva solo tornare indietro per il sentiero dal quale era giunto, oppure tentare la sorte verso una direzione casuale dentro la vegetazione, una decisione che poteva farlo smarrire nelle viscere della foresta. Ora non temeva solamente per la sorte del suo amico falco ma anche per la sua. Gli tornarono in mente le storie sull’uomo delle montagne, lo strano tizio che si aggirava da quelle parti senza una meta apparente, un mago secondo alcuni, un pazzo secondo altri. E se fosse stato il suo fuoco quello che aveva intravisto dalla cima dell’albero?
Ad un tratto la temperatura sembrò calare vertiginosamente, ma il fenomeno durò solo qualche secondo. Poi il paesaggio attorno al ragazzo crepitò di elettricità, un effetto ottico che fu subito accompagnato da una melodia inafferrabile, uno di quei rari fenomeni chiamati Canti di Limbo, musiche provenienti da remote dimensioni che affioravano nell’aria nei momenti più strani. La melodia durò meno di un minuto, spegnendosi con una nota lunga e grave, poi tutto sprofondò nel silenzio. Un attimo dopo Diamond avvertì un movimento alle sue spalle tra i cespugli, ma era come pietrificato e per un istante non riuscì a muovere un dito. Poi, come scosso da una forza interiore sconosciuta, girò su stesso sfoderando il coltello che teneva appeso alla cintura, un regalo del padre per la sua nuova investitura.
Davanti ai suoi occhi lo sovrastava una figura imponente. Aveva il volto come scolpito nella roccia, ed occhi che sprofondavano in un precipizio di assurde conoscenze. Quando lo sguardo del ragazzo incrociò quello dell’uomo, una baratro di follia si aprì sotto i suoi piedi. Diamond vide riflesso negli occhi dell’uomo una vita lontana milioni di ere. Sembrava che l’intera figura, alta una spanna più di lui, emanasse una strana fluorescenza. L’uomo delle montagne era muto, ma parlava con gli occhi.
«Ragazzo, che pena mi fa la tua vera natura, la tua sola bugia…»
Le parole dell’uomo non avevano suono, eppure la mente di Diamond riusciva a percepirle. Quale fosse il loro significato non avrebbe mai potuto intuirlo. Il ragazzo si voltò di scatto e si gettò nella foresta, alla ricerca di quel sentiero che lo avrebbe ricondotto a casa. Udì il suono di un ghigno rimbombare dentro la sua testa, come se lo straniero ridesse di lui e della sua vigliaccheria. Il sentiero si era fatto liquido sotto i suoi piedi, ed ignorava il dolore dei rami che gli sferzavano la faccia. Diamond era lanciato in una folle fuga lontano da quell’uomo, e di sicuro non si sarebbe neanche voltato un momento se i suoi pensieri non fossero andati all’amico falco. Non fu la paura di essere disonorato per la perdita dell’animale che lo fece fermare, ma la genuina preoccupazione per il suo fedele amico. Diamond frenò la sua corsa appigliandosi ad un ramo e voltò lo sguardo verso la radura appena lasciata. Lo straniero era ancora laggiù e stringeva qualcosa nella mano, qualcosa che si dimenava gridando; il suo falco.
«Lascia andare il mio falco!»
Diamond sentì gridare queste parole dalla sua bocca, una reazione che lo sorprese profondamente. Provò a pensare a come uscire da quella situazione, ma si accorse di non avere nessuna possibilità. L’uomo che aveva davanti era sicuramente un mago e la sua vita era ormai nelle sue mani. Poteva solo continuare a fidarsi di quell’istinto che lo aveva fatto fermare e urlare quelle parole. Lo straniero rise nella sua testa, ma il suo volto era sempre di roccia.
«Hai coraggio, piccolo Arcon. Chissà che strana derivazione sei? Potresti essere addirittura mio parente?»
Ancora una volta quelle parole attraversarono la mente di Diamond senza lasciare traccia. Il ragazzo non aveva la minima idea di cosa stesse dicendo lo straniero.
«Non so di cosa state parlando. Io sono solo un Falconiere della valle, e quello è il mio falco. Lasciateci andare!»
L’uomo avvicinò al suo volto l’uccello che si dimenava.
«Rivuoi il tuo amico?» Domandò l’uomo nella testa del ragazzo. «Ecco qua!»
Con un rapido movimento del braccio lo straniero scagliò l’animale verso Diamond che lo vide congelarsi nell’aria, paralizzato da qualche strana magia, e atterrare ai suoi piedi con un rumore di vetri spezzati. Incredulo il giovane Falconiere vide il suo falco andare in frantumi.
Se la follia non lo colse davanti a questa visione, per poco non ci riuscì quando la risata dell’uomo attraversò nuovamente la sua testa. In quel momento la foresta incominciò a girare e Diamond si ritrovò disteso sopra i pezzi di vetro sparsi sul sentiero. Due notti caddero in quel momento, quella di Limbo sul paesaggio e quella del ragazzo nella sua mente.
Quanto di tutto ciò fosse stato un sogno oppure no lui non riuscì mai a capirlo. Diamond venne svegliato la mattina dopo dal punzecchiante becco del suo amico. Ripercorse il sentiero fino alla Valle dei Canti, trascinando due gambe pesantissime e tenendosi una testa dolorante tra le mani.
Da allora si tenne molto distante dalle montagne, ma ogni volta che visitava la foresta gettava lo sguardo verso di quei rilievi, cercando il segno di un bivacco, una traccia di fumo nel cielo. E a volte succedeva che vi era davvero qualcuno lassù che alimentava un fuoco, probabilmente un viandante poco avveduto, un nomade sulla strada sbagliata, oppure…

GM Willo per il progetto Limbo